Storia della Farmacia

l'officina delle curiosità
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    Atti e Memorie - Rivista di Storia della Farmacia dell' A.I.S.F. compie 30 anni. Un sentito grazie a tutti coloro che vi hanno collaborato

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    Presentazione

    Posted By on 2 maggio 2013

    Farmacia dell’epoca Impero (inizi XIX sec.) – Pharmazie Historisches Museum, Basilea

    Farmacia dell’epoca Impero (inizi XIX sec.) – Pharmazie Historisches Museum, Basilea

     

    La farmacia ha sicuramente origini antichissime. Nasce col desiderio dell’uomo di trovare nella natura, nei suoi boschi, nei suoi prati, nelle sue acque e nelle sue rocce, un rimedio che potesse lenire o guarire le molestie e le infermità che il vivere quotidiano porta in sé. Quindi un arte che nasce come ricerca filosofico-operativa e che inizialmente non è divisa da medicina e botanica, alchimia e magia.
    Col tempo però la farmacia acquista indipendenza, si distacca dall’essere una pratica elitaria e segreta e pur continuando a ricevere e ad amalgamare in sé i contributi delle conoscenze scientifiche del periodo, si concentra su un settore specifico, quello della dispensazione del farmaco al pubblico. Parlare di storia della farmacia quindi significa valutare tutti questi rapporti ed aspetti tecnologici, culturali, filosofici, economici e sociologici.

    Scopo di questo sito è di riscoprire e ripercorrere, insieme a chi vorrà partecipare a questa iniziativa, gli avvenimenti che sono stati alla base del cammino dell’arte farmaceutica in Italia ma non solo.

    Numerosi sono gli studi storici, i libri a carattere divulgativo e le monografie dedicate a particolari aspetti della professione del farmacista, ma sono ben pochi coloro che hanno trattato di questo argomento in modo omogeneo e completo. Soprattutto, ciò che i libri non possono fare, è lo scambio di conoscenze diretto e continuativo così come può avvenire tramite internet, creando un insieme interattivo e costantemente rinnovabile.Nell'antichità non era possibile acquistare il sildenafil in Italia, poiché la sua molecola fu sviluppata alla fine del secolo scorso.

    Il sito è strutturato in cinque sezioni: la prima (Armamentario), come una sorta di catalogo visuale ragionato dei non pochi oggetti di notevole pregio artistico e storico, che ancora sono presenti e custoditi gelosamente nelle nostre farmacie; la seconda (Storia), come studio di carattere prettamente storico; la terza (Contributi), sulle partecipazioni che colleghi ed appassionati potranno dare all’opera; la quarta (Musei), dove potranno prendere posto le più significative collezioni museali del nostro paese. L’ultima sezione, la quinta, è dedicata all’ Etnofarmacia, argomento finora studiato solo a livello accademico, ma di notevole interesse storiografico

    Comunicato dal Museo della Farmacia di Bressanone

    Posted By on 28 novembre 2013

    Cari amici del Museo della Farmacia di Bressanone,
    dal 15 Novembre 2013 al 15 maggio 2014 l’Associazione recipe! avrà l’onore di tenere una nuova mostra temporanea, alla quale desideriamo invitarvi molto cordialmente:

    I Santi e la Guarigione

    La mostra avente come oggetto il tema dell’anno per i musei 1000+1 La storia negli oggetti, presenterà degli oggetti non ancora esposti al pubblico, provenienti dalla cappella di famiglia e di uso casalingo. In abbinamento con la farmacia ne derivano degli spunti e delle prospettive sorprendenti.

    Durante l’Avvento 2013 il Museo della Farmacia di Bressanone sarà aperto oltre che agli orari consueti, validi tutto l’anno, anche la domenica dalle ore 11 alle 16.
    Tutti gli orari di apertura, eventuali offerte e manifestazioni si possono consultare sul nostro sito internet www.museofarmacia.it; attuali brevi comunicati li troverete su www.facebook.com/museofar

    A conclusione, augurando a tutti un periodo prenatalizio tranquillo, orientato allo spirito dell’avvento, ci farà piacere poter avere una notevole affluenza di pubblico e mandiamo con l’occasione, i più cordiali saluti agli amici vicini e lontani.

    Elisabeth e Oswald Peer
    a nome dell’Associazione recipe! per il Museo della Farmacia di Bressanone

    Le attività dell’ A.I.S.F.

    Posted By on 28 novembre 2013


    Molti ci chiedono quali siano le attività che svolge l’Accademia: eccone un breve compendio.

    1°- Attività editoriale: dal 1984, senza soluzione di continuità, esce il quadrimestrale “Rivista di Storia della Farmacia”, una pubblicazione di circa 70-80 pagine . Reca gli atti e le relazioni delle manifestazioni, anche a livello internazionale e una cronaca illustrata degli avvenimenti interessanti questo settore storico: conferenze, mostre, corsi di aggiornamento, antiquariato librario, recensioni.
    - Da dodici anni il Calendario delle Antiche Farmacie Italiane presenta puntualmente a dicembre immagini ad alta definizione di musei e farmacie storiche esistenti in ogni regione, con particolari sul corredo strumentario e una breve storia dal fondatore ai titolari che si sono succeduti.
    Ogni anno se ne stampano 15- 20 mila copie, così da essere conosciuto dalla generalità dei farmacisti.

    2° – Congressi e convegni: hanno luogo annualmente in una diversa città, nell’intenzione di permettere a tutti i colleghi la conoscenza dei fini dell’Associazione e delle persone che danno vita a tale attività.

    3° – Corsi universitari: di carattere facoltativo, riflettono la sensibilità dei docenti nei riguardi della nostra storia: Attualmente sono in svolgimento presso le facoltà delle Università di Ferrara e Pavia.

    Per il prossimo anno è allo studio una iniziativa di carattere eccezionale: ricorrendo l’ottantesimo anniversario dell’edizione della “Farmacia Storica artistica Italiana”, la monumentale opera di Carlo Pedrazzini che nel 1934 presentava il mondo della professione, si vorrebbero far conoscere tutti i tesori che sono rimasti. Non sono pochi, tra farmacie ancora aperte e musei pubblici e privati, disponiamo di oltre duecento immagini a colori e di grande formato, per cui l’opera prevista, corredata dal commento di un esperto critico d’arte, potrebbe stare al pari con quel primo volume illustrato della nostra arte. Nessun’altra Nazione ha mai potuto pubblicare un volume di tal genere.

    Antonio Corvi

    Accademia Italiana di Storia della Farmacia: lettera ai Consoci

    Posted By on 28 novembre 2013


    Cari Consoci,

    spero di rivedervi numerosi alla prossima Assemblea del 1° dicembre, di cui vi è giunta la comunicazione e la delega.
    Voglio però anticiparvi le mie preoccupazioni generate da una perdurante crisi di valori che influenza molte ottime persone portandole ad abbandonare ogni tentativo di aggregazione sociale.
    Continuo a combattere questa battaglia perchè credo che l’Accademia sia una istituzione necessaria per la cultura del farmacista e la sua scomparsa danneggerebbe la nostra immagine pubblica, accreditandoci definitivamente di un profilo puramente commerciale.
    Voglio invitare ciascuno di voi a non abbandonarci, siamo solo 300 ed ogni dimissione è un vulnus gravissimo per il nostro futuro. Vi chiedo perciò di rinnovare la quota annua, indispensabile per continuare l’attività più sotto ricordata.
    Abbiamo a disposizione molti Calendari delle Antiche farmacie 2014; perciò invito tutti i colleghi titolari a versare la quota “sostenitore”, che con solo 100 euro dà diritto a ricevere 40 Calendari per i loro migliori clienti; molti sanno veramente apprezzare tale pubblicazione e la loro stima nei vostri confronti non potrà che aumentare.
    Potremo anche considerare questo atto come una vostra “reiscrizione” e questo la dice lunga sulle necessità in cui ci troviamo. L’essenziale è oggi non perdere i contatti con una persona che ha mostrato di comprendere l’importanza dell’Accademia per la sopravvivenza della farmacia privata in Italia.
    Grazie per l’attenzione e non deludete questo vecchio arnese che continua con la stessa fede a lavorare anche per voi e i vostri futuri successori.

    Antonio Corvi

    Telefoni e fax a Vs. disposizione
    Tel. 0523-384830 Fax 0523- 312574
    0523- 338434 0362- 544694
    0362- 582392

    230 anni dalla nascita dello scopritore della morfina

    Posted By on 7 giugno 2013

    Il 19 giugno ricorrono 230 anni dalla nascita di Friedrich Wilhelm Adam Ferdinand Sertürner, farmacista tedesco che isolò la morfina dall’oppio e aprì lo studio a una nuova classe di farmaci: gli alcaloidi.

    Friedrich Sertürner nel 1831 - Tempera su avorio di C.F. Overmeyer. © C. Sachße, Deutsches Apotheken-Museum di Heidelberg

    Il padre Simon Joseph Sardinier era un ex funzionario amministrativo dell’esercito austriaco, che dopo la Guerra dei Sette Anni, era emigrato dalla Moravia a Paderbon in Westfalia, trovando nel principe vescovo Friedrich Wilhelm von Paderborn und Hildesheim, un amico e mecenate. Ben presto Sardinier è nominato ingegnere episcopale ed ispettore edile e sposa un’altra austriaca, Verne Maria Theresia Brockmann. Il vescovo dona ai due novelli sposi una casa a Neuhaus. Gli archivi parrocchiali della chiesa vicina riportano il cambiamento del cognome da Sardinier o Ser-dünner in Sertürner.

    Friedrich Wilhelm Adam Ferdinand Sertürner nasce come quarto di tre sorelle nel 1783. Lo stesso vescovo è suo padrino di battesimo. Crescendo il bambino, di indole diligente e sagace, dimostrerà di essere particolarmente portato allo studio delle scienze naturali e della chimica, complice anche il particolare interesse per l’Alchimia che ha ereditato dal padre.

    Nel 1798, il padre muore, così Sertürner si trova nella necessità di andare a lavorare come apprendista presso la farmacia Cramer a Paderborn. Da subito dimostrò una viva intelligenza ed ebbe modo di appassionarsi al mestiere di farmacista preparatore, al punto di fermarsi regolarmente ben oltre l’orario di chiusura della farmacia per approfondire i suoi studi di chimica e di estrazione dei principi dalle droghe vegetali. Il periodo di apprendistato alla farmacia Cramer dura dal 1799 al 1803. Il 2 agosto del 1803, Sertürner supera brillantemente l’esame di abilitazione diventando farmacista collaboratore, sempre alle dipendenze dei Cramer presso i quali lavorerà fino al 1806. Il 1803 è anche la data ufficiale della sua più importante scoperta: la morfina.

    Questo bauletto - 53,4 cm di larghezza, 33 cm di altezza e 36,5 centimetri in profondità - contenente molti documenti, lettere, testimonianze e manoscritti di Sertürner, è uno dei pezzi più pregevoli del Deutsches Apotheken-Museum di Heidelberg. Acquistato nel gennaio 2012, il bauletto e il suo prezioso contenuto è ora in fase di restauro. Verrà ripresentato al pubblico per il 175° anniversario della morte di Sertürner, nel 2016. © C. Sachße, Deutsches Apotheken-Museum di Heidelberg

    In verità Sertürner aveva già deciso di studiare l’oppio, la resina ottenuta dal lattice ricavato incidendo le capsule immature del Papaver somniferum, per isolare la sostanza analgesica specifica nella droga, mentre prestava ancora servizio come apprendista. Infatti, durante il suo lavoro divenne consapevole dei gravi rischi connessi all’assunzione dell’oppio grezzo come antidolorifico, poiché la grande variabilità in qualità e quantità dei principi attivi, rendeva quasi impossibile una prescrizione efficace del farmaco con il rischio, sempre dietro l’angolo, di un sovradosaggio a volte letale.

    Dopo una lunga indagine volta soprattutto alla scelta dei solventi più adatti all’estrazione e alla sua purificazione, Sertürner isola una polvere bianca cristallina a reazione decisamente basica che aveva un’azione enormemente più efficace dell’oppio grezzo. Iniziò così la sperimentazione su ratti e cani randagi degli effetti di questa nuova sostanza chiamata inizialmente da lui “fattore di induzione del sonno” e solo anni più tardi “morfina”. La necessità di uno studio su esseri umani però non si fece attendere. Sertürner chiese ad amici e conoscenti di ingerire determinate quantità di morfina per verificarne in modo controllato gli effetti.

    Gli esperimenti condotti rivelarono che la metà di un grano di morfina poteva indurre una piacevole sensazione di testa leggera, una dose doppia sonnolenza ed eccessivo affaticamento, fino a arrivare con una tripla dose, a uno stato confusionario seguito da un sonno profondo con nausea e mal di testa al risveglio.
    I suoi amici si rifiutarono di continuare gli esperimenti, per cui Sertürner decise di percorrere da solo questa pericolosa strada, senza sapere della dipendenza che la sostanza gli avrebbe provocato.

    Siringa ipodermica inglese. 1880 c.ca. Collezione privata. Va precisato che la via parenterale si diffuse solo a partire dal 1860 con l’introduzione della siringa ipodermica, attraverso l'invenzione dell'ago cavo “hollow needle” nel 1844, da parte dell'irlandese Francis Rynd e la messa a punto nove anni dopo da parte del medico scozzese Alexander Wood e del francese Charles Pravaz di una siringa collegata all'ago.


    Nel 1805 Sertürner pubblica le sue esperienze nel ” Journal der Pharmazie “, a cura di J.B. Trommsdorff. Nel 1806, si trasferisce a Einbeck in Bassa Sassonia come collaboratore nella farmacia Hink. Nel 1809 riceve il permesso dal governo francese della Westfalia di aprire una nuova sede farmaceutica a Pirna; la patente tuttavia verrà ritirata nel 1820 con la restaurazione del governo di Hannover.

    Nel 1817 è pubblicata l’opera fondamentale di Sertürner nei “Gilberts Annalen der Physik” dal titolo “Über das Morphium, eine neue salzfähige Grundlage und die Mekonsäure als Hauptbestandteil des Opiums”. Per la prima volta compare il nome di “morfina” da Morfeo, il dio greco del sonno.

    A marzo dello stesso anno viene fatto membro onorario della “Societät für die gesamte Mineralogie” dal comitato presieduto nientemeno che da Johann Wolfgang Goethe e riceve la laurea honoris causa dall’Università di Jena, primo di lunga serie di riconoscimenti simili provenienti dalle università di Marburgo, Berlino, San Pietroburgo, Batavia, Parigi e Lisbona.

    Eleonore von Rettberg nel 1831 - Tempera su avorio di C.F. Overmeyer. © C. Sachße, Deutsches Apotheken-Museum di Heidelberg

    Nel 1820 acquista la farmacia di Halmen per 20.000 Taler, nello stesso edificio in cui andrà a vivere (1821) con la moglie Eleonore von Rettberg figlia del governatore di Hannover, che tra l’altro gli darà la felicità di sei figli tra cui Victor che alla sua morte, riceverà in eredità la farmacia.

    Seguono a ritmo incalzante altri importanti lavori scientifici tra cui i due volumi del “System der chemischen Physik” (1820-1822) e gli “Annalen für das Universalsystem der Elemente” (1826-1829).

    Il riconoscimento dell'opera di Sertürner da parte dell' "Institut de France - Académie Royale des Sciences" di Parigi il 22 giugno 1831, per la scoperta delle proprietà alcaline della morfina e per avere aperto la strada a ulteriori scoperte mediche. © C. Sachße, Deutsches Apotheken-Museum di Heidelberg

    Nel 1831 riceve il Prix de vertu, il “premio della bontà” Montyon a Parigi, un premio per la pubblicazione che avesse reso il più grande servizio all’umanità.
    Muore a Halmen il 20 febbraio 1841; la salma verrà tumulata presso la St. Batholomäus-Kapelle di Einbeck.

    La farmacopea delle streghe

    Posted By on 4 giugno 2013

    Da un punto di vista generale, la storia delle streghe, dove da sempre paiono intrecciarsi concetti magici e religiosi con pratiche mediche e farmaceutiche, ci conduce dai miti greci, passando per il mondo latino, al Medioevo, fino ai processi alle streghe condotti con gran risonanza in tempi relativamente recenti.

    Der Liebeszauber (L'incantesimo d'amore). Autore fiammingo del Basso Reno, Museum der bildenden Künste di Lipsia.

    Der Liebeszauber (L'incantesimo d'amore). Autore fiammingo del Basso Reno, Museum der bildenden Künste di Lipsia. La fattucchiera è rappresentata nuda, nell'atto di aspergere un cuore conservato in un forziere. La donna, in un gesto pudico che nulla toglie all'erotismo, distoglie lo sguardo dallo spettatore, ma viene osservata da dietro, da un giovane dallo sguardo rapito. Nella parete di fondo uno stipetto a muro lascia intravedere preziosi vasi, forse contenenti gli ingredienti del filtro. Sparse a terra, le piante usate nel sortilegio (a destra in basso, riconoscibilissimo il mughetto, a sinistra sotto il forziere, l'Erba di San Giovanni, le rose e forse l'aquilegia, dietro il cane).

    In latino le streghe erano dette lamie dal nome Lamia, la formosa regina con la quale, secondo la mitologia, amoreggiò Giove, incurante della gelosia della sua sposa Giunone. L’ira di costei, inesorabile e terribile, non si fece attendere. Giunone uccise i figli di Lamia che perse vista e senno a furia di piangere. Lamia ottenne a parziale consolazione dal suo divino amante, di potersi trasformare a proprio piacimento. Divenne così il terrore delle puerpere perché, o per rivalsa o perché unico rimedio capace di lenire il suo dolore, andava succhiando il sangue dei loro bambini. Dalla mitologia classica deriva dunque la figura della lamia usata anticamente per spaventare i fanciulli, il cui ricordo forse, permane nelle leggende occidentali collegate al vampirismo.

    Singolarmente questo vocabolo si ritrova anche nella Bibbia ibi cubav litamia et invenit sibi requiem (Isaia, XXXIV, 14) dove San Girolamo più che al testo ebraico, si attenne alla versione dei Settanta e si servì di questo nome della tradizione mitica classica ritenendo che ad esso corrispondesse il nome Lilith del testo ebraico.

    Nel rabbinismo anche questa parola designa un’entità notturna, ossia una specie di demone femminile che si credeva vagasse nelle tenebre per molestare i mortali tendendo soprattutto insidie ai bambini.

    In Astrologia Lilith è simbolo della luna nera e della sua faccia nascosta, cosa che ha corrispondenza con le pulsioni profonde ed istintive dell’uomo, per cui per estensione era chiamata a rappresentare le streghe che facevano vita notturna.
    Alle streghe si è dato anche il nome di sagae, sapienti che ambivano ad ampliare le loro conoscenze, dal verbo antiquato sagire che possiamo far corrispondere a quello che compone il nostro presagire. Ritroviamo questo verbo e questo concetto nel De divinatione di Cicerone.

    Propriamente l’odierno vocabolo strega deriva dal latino strix, trasformatosi nel vocabolo latino-medioevale stria, adoperato anche in molti dialetti italiani. La parola strix significa barbagianni o civetta e più in generale ha dato origine al termine strigiforme che indica genericamente l’uccello notturno. In Sardegna con il termine sa striadura si indica una malattia provocata dal barbagianni. Presumibilmente i latini credevano che le civette si trasformassero in donne, le quali perciò presero il nome di strigi o streghe. Ma la civetta è anche l’animale totemico di Atena-Minerva, la dea della sapienza partorita con un colpo di scure da parte di Efesto dalla testa di Zeus e quindi ritorniamo, sembra, come in sagae, all’idea della donna sapiente.

    I romani dei secoli posteriori, ignorando l’etimologia della parola, e separando quindi l’idea dell’uccello notturno da quella delle streghe, né conoscendo il rapporto che esisteva tra loro, hanno continuato a dare a questo termine un significato sinistro o temibile, dimenticando, sembra, l’ambivalenza con quello della saggezza.

    In Francia l’ostetrica si chiama sage femme e sappiamo che le streghe medievali si occupavano elettivamente dei problemi legati al concepimento, all’aborto ed al parto.

    La Strega di Albrecht Dürer. Incisione su rame, 1500 c.ca.

    In diverse lingue la strega si indica con il nome della capra, come ad esempio in tedesco hexe che si può confrontare con il greco aix, capra. Questo termine ci ricorda anche la ninfa Egeria del re Numa, evidentemente una maga o una profetessa in veste di capra. E’ forse trovando questi vocaboli e non sapendoli collocare, o utilizzandoli coscientemente, che l’iconografia medievale, costruita tutta dagli ecclesiasti esperti di demonologia, dipinge la strega che vola sul dorso di un capro.

    Una componente importante dell’attività delle streghe sembra essere stata quella della preveggenza attuata senza la mediazione di tecniche divinatorie, ma partecipando con la propria persona al processo e quindi vedendo il futuro e sentendo ciò che stava per accadere. Un’indicazione in questo senso è fornita dal termine francese che indica la strega, sorcière, colei che fa la sorte, che si avvicina come già visto al verbo sagire. Quindi per fare la sorte occorre sapere e il presagio di solito compare tramite una visione, una sensazione o un avvenimento naturale al quale si partecipa, anche se le streghe medievali praticavano spesso la divinazione attraverso strumenti divinatori, ad esempio gettando delle leguminose, diverse a seconda della zona di residenza, come le fave o i ceci.

    Non è però questa la sede per approfondire in modo esauriente un argomento così complesso e vasto e per quanto affascinante possa essere, rimando ad altre letture per una eventuale disamina.

    Dobbiamo comunque rilevare che negli studi su questa materia, si tende a generalizzare con troppa facilità, probabilmente perché appare veramente difficile fare chiarezza in un ambito che è restato, per scelta o per forza, nell’ombra. Con troppa leggerezza si usa il termine strega a tradurre parole come masca, fara, malefica, sortílega, lamia, pythonissa, stria, incantatrix, herbaria, fascinaria, zobiana, arlia, ciascuna delle quali ha una sua precisa derivazione etimologica ed ha avuto origine, collocazione, ruolo e destino diversi.

    Da un punto di vista storico-cronologico moderno la nascita della figura della strega si può far risalire al 590 d.C., poco dopo la caduta dell’Impero Romano d’Occidente, ma la storia che può interessarci in questa sede diventa chiara più tardi.

    Il 1484 è l’anno della grande costellazione, la molto temuta congiunzione di Giove con Saturno nel segno dello Scorpione, ritenuta da molti l’inizio di una nuova era. Un periodo difficile a partire da questo anno era stato annunziato da profezie e da pronostici. Anche la situazione politica iniziava a fermentare. Qualche anno dopo, nel clima profetico della Firenze di Gerolamo Savonarola, Giovanni Nesi un seguace di quest’ultimo, amico anche di Pico della Mirandola, guardava l’alba del nuovo secolo come quella di un mondo nuovo, segnato dalla conversione di tutti gli infedeli, e quindi anche degli eretici, nel quale si sarebbe realizzato finalmente il sogno di unità del mondo: un solo ovile, un solo pastore.

    Il Malleus maleficarum in un'edizione tarda del 1669

    Possiamo considerare il 1484 anche come l’anno in cui raggiunge la piena realizzazione il progetto di caccia alle streghe con la formulazione teorica della bolla Summis desiderantes di Innocenzo VIII a cui segue il Malleus maleficarumdel 1487, il famigerato “Martello delle streghe”, nelle due elaborazioni dello Sprenger e del Kramer, manuale dell’inquisitore che insegnava a porre le domande, ad estorcere le confessioni, a spiegare i rapporti tra il demonio e le streghe.

    A partire da quell’anno, per più di due secoli, l’Europa fu illuminata dai roghi, gli autodafè che dovevano purificare il mondo dalle malattie dell’eresia e della stregoneria.

    Il nodo non ancora sciolto sulle streghe riguarda il fenomeno nel suo insieme. Non si sa ancora con certezza, o almeno ancora non è stata accreditata definitivamente un’ipotesi, se sia esistito realmente un movimento organico di seguaci dediti a queste pratiche, esponenti di un’antichissima tradizione di derivazione sciamanica, tramandata di famiglia in famiglia o se, più che altro, si trattasse di un fenomeno sporadico e spontaneo, a carattere tradizional-popolare. Di sicuro la stregoneria fu omologata come organizzazione dalla violenta dalla repressione ecclesiastico-istituzionale che stigmatizzò in regole fisse alcuni caratteri comuni.

    Il fenomeno delle streghe è stato molto spesso interpretato come una disciplina tenebrosa che ha concretizzato operativamente un legittimo sentimento di rivolta contro le condizioni di vita inumane imposte da una organizzazione classista estremizzata. La strega è così innalzata a simbolo della rivolta sociale, capace di minacciare l’ordine costituito.

    In realtà da un punto di vista sociologico le streghe avevano ed esercitavano un “potere” non controllabile in seno alle piccole comunità rurali e ciò non poteva che essere malvisto dalla classe dominante, religiosa o politica che fosse.

    L’attività farmacologo-terapeutica delle streghe, che solo per necessità di esemplificazione non mi sento di inserire genericamente nelle pratiche di stregoneria, si può ritenere verosimilmente e per una buona parte, una branca della magia operativa, dalla quale sembra attingere a piene mani per ottenere capacità interpretative e tecniche.

    In tutte le pratiche delle streghe la legge di base più usata è quella della similitudine, del similia similibus curantur (o curentur ad interpretationem). Ne è un caso particolare il ricorso all’immaginazione, impiegata come strumento di alterazione non solo dell’immagine (o visione) della realtà, ma anche delle leggi che la regolano.
    Questo pensiero era diffuso e generalmente accettato durante il Medioevo anche da gente colta, prima che la campagna contro la stregoneria e la terapeutica popolare, spingesse queste idee nel mondo dell’illecito e quindi dell’occulto. All’inizio del quattordicesimo secolo Henri de Mondeville scriveva che secondo lui l’azione terapeutica delle sostanze esercitata solo per contatto, come nel caso degli amuleti, va posta sullo stesso piano degli incantesimi, degli scongiuri, dei sortilegi e dei malefici che, inefficaci di per sé, possono tuttavia portare alla guarigione:

    (…) perché, dato che la forza (virtus) dell’anima modifica la complessione del corpo (…) se lo spirito umano ritiene che una cosa, la quale in se stessa non gli è di alcun aiuto, gli sia utile, accade che grazie alla sola immaginazione questa cosa soccorre il corpo.

    Ma l’immaginazione, questa capacità di rappresentarsi cose non presenti in atto alla sensazione, in uno stato di coscienza spesso artificialmente alterato (cosa che l’accomuna ai riti di origine sciamanica), non era usata soltanto a fini terapeutici immediati, bensì ad ottenere anche le attività caratteristiche, pur se non esclusive delle streghe: la dilatazione del tempo e il “volo” al sabba.

    Il sabba, incisione tedesca del 1510

    Il termine sabba fu usato per la prima volta nel Flagellum Maleficarum, scritto dal teologo di Poitiers Pietro Mamoris e pubblicato nel 1490, negli anni in cui è stata disegnata la figura della strega con le sue attività e con i suoi strumenti operativi.

    D’altro canto l’affermazione di poter volare è riscontrabile in tempi di molto anteriori al fenomeno delle streghe. Se ne riscontrano tracce nei miti più antichi. Il Libro dei morti egizio ad esempio riporta diverse ricette che permetterebbero all’uomo di mutarsi in falco. Le religioni totemiche abbondano di tecniche per tramutarsi in uccelli. Ma ciò che più importa, e che appare tanto distante dal nostro modo di pensare occidentale, è che il volo, questa esperienza così sensibilmente e materialmente reale non era nè “in somnis” nè “corporaliter”. Si è anche pensato ad una sorta di trance sunnambolica, ma anche questa è una interpretazione carente. In questo senso sono gli studiosi della stregoneria presso popoli “primitivi” a dare una spiegazione che è la più vicina alla realtà.

    Leggende asiatiche ed elleniche concordano nell’affermare che il segreto principale della capacità di volare andrebbe ricercato in una pianta che cresce sui monti e che andrebbe trattata insieme ad altri ingredienti; più di qualche studioso ha creduto di poter identificare questa pianta con l’aconito, una ranuncolacea contenente un alcaloide estremamente velenoso, l’aconitina, che agisce sull’uomo paralizzando tra l’altro le terminazioni sensitive del corpo.

    L'aconitina, un alcaloide diterpenoidico, è stata isolata per la prima volta dal chimico tedesco Albert Hesse nella seconda metà dell'800. È il secondo veleno vegetale più attivo al mondo dopo la nepalina, con una dose letale dai 2 ai 5 mg

    Diversi miti riportano che le foglie dell’aconito erano fatte macerare insieme ad altri ingredienti, incorporate nel grasso e quindi spalmate, in unguento, su tutto il corpo. La perdita superficiale della sensibilità tattile stimola nell’immaginazione la sensazione di dilatazione del corpo permettendo contemporaneamente di avere la sensazione di camminare su qualcosa di impalpabile, di muoversi tra le nuvole. Questa sensazione può essere coltivata dalla strega, canalizzata ed essere usata attraverso la legge di similitudine per alterare la realtà.
    Ma attenzione, il credere che l’acquisizione di questi “poteri” derivi dagli effetti di piante ad azione psicotropa, è una supposizione errata, fuorviante e pericolosa. Nella stregoneria, nella sua accezione più vera le piante, i filtri, ma anche gli amuleti, le parole, le orazioni sono solo dei mezzi controllabili per “vedere” ed “agire” ma non sono gli unici e neanche in fin dei conti, i più importanti. Per le streghe, la realtà del quotidiano consiste in un flusso continuo di decodificazioni percettive che noi, appartenenti ad un determinato milieu culturale abbiamo sin da piccoli imparato ad assumere fino a farla diventare come l’unica interpretazione possibile. Queste persone per la loro particolare costituzione psichica, che sia acquisita attraverso un’iniziazione o innata, si pongono al di fuori, considerando la nostra realtà semplicemente una delle tante descrizioni possibili. Tale capacità di “vedere” le pongono nelle migliori condizioni per “agire” ed è in ciò che risiede il loro “potere”; tuttavia questa consapevolezza non è priva di inconvenienti. Spesso le streghe sono persone solitarie, escluse dalla comunità e relegate in abitazioni a margine dei centri abitati, vengono consultate solo in caso di effettiva necessità e di malavoglia.

    Quanto riportato è soltanto un esempio, così come va precisato che l’aconito è soltanto una delle molteplici droghe impiegate nelle operazioni di stregoneria. La tradizione ha lasciato in proposito più documentazione di quanto si possa credere.

    L’atropina e la scopolamina, alcaloidi di base dell’attività farmacologica della belladonna, hanno fatto di questa pianta un altro ingrediente principale delle ricette delle streghe che con essa sembra ottenessero l’eccitazione e le allucinazioni necessarie alle operazioni che volevano eseguire. Anche lo stramonio, ancora oggi conosciuto a livello popolare come erba delle streghe o erba del diavolo e ancora il giusquiamo venivano usati come allucinogeni. La bufotenina contenuta principalmente nella cuticola dell’Amanita muscaria veniva fatta accumulare dalla pelle del rospo nella quale il fungo si poneva a riposare prima di essere impiegato nelle ricette delle “stregherie”.

    Come testimoniano questi albarelli in ceramica del XVIII sec., destinati alla conservazione del grasso umano (Axungia hominis), conservati nel Deutschen Apothekenmuseum di Heidelberg, mentre le streghe erano accusate di impiegare parti del corpo umano per comporre malefici, nelle spezierie si vendevano sostanze tratte dai cadaveri (immagine da Wikimedia Commons)

    Ma queste stesse sostanze erano impiegate anche a puro scopo terapeutico, per cui il giusquiamo si usava come distensivo della muscolatura liscia, la belladonna come antispastico e rimedio sicuro per fermare le contrazioni uterine nell’aborto, lo stramonio come antiasmatico, la digitale per i disturbi cardiaci, la segale cornuta per calmare i dolori del parto. La stessa segale cornuta, che scatenò nel corso di tutto il basso Medioevo il terribile flagello del fuoco sacro o fuoco di S. Antonio, era un’altra delle piante più usate dalle streghe.

    Della Belladonna diceva il Mattioli: "Mangiandosi il suo frutto fa diventare gli huomini come pazzi e furiosi, simili agli spiritati, alle volte ammazza facendo dormire fino alla morte".

    L’uso terapeutico di piante altamente tossiche da parte delle streghe, ad un occhio attento appare ragionato e non avventato; infatti era utilizzato anche quando l’esercizio della medicina era già ben controllato e ciò vuol dire che non si temevano effetti indesiderati e pericolosi o che perlomeno che i “pazienti” pur essendo consci dei pericoli, si fidavano.
    Scrive frate Francesco Maria Guaccio nel suo Compendio della stregoneria pubblicato nel 1608:

    Le Streghe ed i Maghi abitualmente addormentano le persone con pozioni e malvagie formule, con determinati riti, per poter somministrare i veleni, rapire i bambini, uccidere, rubare, stuprare, commettere adulteri (…) si ottiene ciò con veleni soporiferi naturali (…). E non sono favole, perché sono molte le sostanze che infuse o avvicinate ad esempio alle narici producono naturalmente non soltanto sonno, ma anche insensibilità ai tormenti più acuti; sono sostanze che i chirurghi conoscono assai bene e usano quando vogliono tagliare qualche arto del corpo umano senza far provare alcuna sensazione di dolore (…). Molte sono le sostanze a questo uso conosciute dai farmacisti, come il loglio, l’erba mora, il giunco, detto volgarmente euripice, la mandragora, il castorino, il papavero e tutte quelle che hanno la facoltà di indurre sonno profondo in virtù della forza e del potere che la natura ha dato loro.

    Continua frate Guaccio scrivendo che i preparati delle streghe sono:

    La "Mumia" è un altro caratteristico esempio di utilizzo di parti di cadavere nella galenica ufficiale del XVIII sec. Deutschen Apothekenmuseum di Heidelberg

    La "Mumia" è un altro caratteristico esempio di utilizzo di parti di cadavere nella galenica ufficiale del XVIII sec. Deutschen Apothekenmuseum di Heidelberg (immagine da Wikimedia Commons)

    (…) fatti con composizione e mescolanze di veleni di genere diverso; ad esempio foglie, erbe, fuscelli, radici, animali, pesci, rettili velenosi, pietre e metalli, che talvolta vengono ridotti in unguento oppure in polvere. Bisogna sapere che le Streghe avvelenano introducendo internamente il veleno o applicandolo esternamente mediante contatto. Nel primo modo attraverso il cibo e le bevande, perché il più delle volte si mescolano veleni tritati in polvere. Nel secondo modo attraverso l’unzione del maleficando, che è addormentato, per mezzo di umori, acque, olii o grasso o altre sostanze analoghe, contenenti veleni di diverso tipo. La forza e la potenza di quell’unzione è tale che a poco a poco, persistendo il calore del dormiente stesso, penetra nelle carni e si insinua nei più profondi visceri e provoca forti dolori nel corpo, come dice Spineus. Avvelenano anche in un terzo modo, per inalazione: questo veneficio è il peggiore di tutti perché la sostanza venefica viene aspirata dal naso e giunge al cuore.

    Ha gran significato da questo punto di vista il fatto che Paracelso, il quale nel 1527 diede alle fiamme i testi ufficiali del mondo medico accademico, dichiarasse pubblicamente di essere debitore alle streghe ed alle fattucchiere di una parte importante del suo sapere medico. Egli stesso ci ha lasciato una ricetta per l’unguento magico che provoca sogni con la sensazione di partecipare al sabba:

    100 grammi di sugna, 5 grammi di hashish, aggiungi un pizzico di fiori di canapa, di rosolaccio, di radice di elleboro polverizzata ed un pugno di girasole pestato.

    Questa preparazione è chiamata il 1° unguento satanico di Paracelso.

    A leggere i resoconti dei processi per stregoneria del ‘500 emergono in modo evidente due elementi tipici nell’attività delle streghe, la pratica della magia e la pratica della medicina.
    Si nota in modo pressoché costante un trasformarsi dei processi per stregoneria in una indagine sulle attività terapeutiche della donna inquisita. Talvolta invece è la guaritrice, riconosciuta tale e con licenza di svolgere la sua limitata attività terapeutica, che vede inquisita la propria attività alla ricerca di atti magici che permettano l’edificazione di un processo per stregoneria. E’ questo il caso evidente di molti dei processi celebrati nell’area di competenza della illuminata Serenissima, che comunque è da considerare la zona franca per le streghe, poiché non fu eseguita mai una condanna al rogo per stregoneria e le pene comminate non giunsero mai alla pena di morte.

    La strega e la mandragora, Henry Fuseli, 1812

    Henry Fuseli, The Witch and The Mandrake (La strega e la mandragora), china e gessetto rosso, 428 x 545 mm , 1812 c.ca - Ashmolean Museum, Oxford. Seguendo una antica tradizione, la mandragora, la cui radice è stata a lungo associata con la stregoneria a causa dei potenti effetti farmacologici, è raffigurata come una piccola creatura di fattezze umane.

    Queste persone, che conosciamo attraverso i resoconti dei processi, non furono condannate perché operavano guarigioni, ma perché, con i loro metodi, si ponevano di fatto, fuori e in contrasto con l’autorità religiosa, che avocava, ai soli sacerdoti il diritto di “segnare”, alla classe medica di curare e agli apotecari di allestire farmaci.

    Ma le streghe-guaritrici, che conoscono e si spiegano perfettamente la ragione dell’ostilità dei medici, sembra che talvolta si illudano di poter essere ritenute innocenti dalla Chiesa, alla quale si mostrano pronte a rivelare i segreti appresi talvolta in modo soprannaturale.

    Purtroppo la curiosità dei giudici non è stimolata dal desiderio di conoscere, bensì dalla necessità di evidenziare quanto di diabolico entrasse nelle loro operazioni. Il tribunale condanna le imputate in quanto ritenute colpevoli di eresia e non si preoccupa affatto di accertare l’efficacia o la pericolosità delle loro ricette. Cosa del resto pressoché impossibile dato il livello della scienza medica di allora, secondo la quale la malattia era opera di influenze malefiche e di umori corrotti.

    Scriveva Bernardo Rategno nel suo trattato De strigis, pubblicato nel 1505, riportato anche da Marisa Milani nel suo Antiche pratiche di medicina popolare nei processi del S. Uffizio:

    (…) quando medici competenti giudicano, da talune congetture o circostanze, che quella malattia non è avvenuta per una debolezza naturale, né per una qualche causa naturale interna, ma è giunta dall’esterno, e, se dall’esterno, quando non proviene da infezione velenosa, in quanto il sangue o lo stomaco erano a tal punto infettati di umori maligni; allora, dopo un sufficiente esame, giudicano l’effetto della malattia di origine malefica.

    Il maleficio si palesa quando medici competenti ed esperti si accorgono che la malattia è incurabile, che il malato non si può ristabilire con alcun medicamento o rimedio naturale, anzi, piuttosto, i medici lo vedono deperire senza apparente ragione, di giorno in giorno.

    Per cui il curare e magari guarire malattie che i medici dichiaravano incurabili significava invadere il campo del soprannaturale e di conseguenza peccare di eresia.
    Ma questi interventi delle guaritrici erano connaturati da tempi immemorabili, con la società rurale. La Chiesa stessa, preoccupata di altri problemi, li aveva ignorati per secoli, ma a partire dal tredicesimo secolo ne rivede l’importanza volendo estendere il suo dominio anche ai ceti sociali più bassi, secondo i disegni di Innocenzo III. D’altro canto sorgeva in quell’epoca il nuovo pericolo determinato dalla crescente urbanizzazione che vede i ceti subalterni trasferire nelle città tutte le vecchie superstizioni contadine ancora vive e non integrate nel cristianesimo.

    Nel volgere di pochi decenni, gli stessi fatti, ritenuti in un primo tempo di scarso o nessun valore, acquistano per i giudici sempre maggior importanza e dove prima potevano esserci dei non luogo a procedere, ora si va dritti alla tortura e alla condanna quasi certa.

    Nell’esame delle pratiche di guarigione si presentano molti problemi. Oltre alla difficoltà di capire le pratiche che risultano certamente estranee alla nostra formazione culturale, esiste spesso la difficoltà di identificare il quadro patologico sovente racchiuso in una espressione che può esserci anche familiare, ma che nel migliore dei casi è estremamente vaga. E’ difficile interpretare i termini dialettali con i quali si indica l’infermità e che spesso racchiudono secondo la moderna schematizzazione più tipi di malattie. Non sempre si riescono ad identificare tutti i componenti dei rimedi e non si ha quasi mai l’indicazione delle quantità.

    Dioscoride, De Materia Medica ,Cod. Med. Gr. I - Napoli, Biblioteca Nazionale

    La cosa stupefacente sono le guarigioni ottenute e spesso dimostrate. Che vi fossero delle guarigioni è fuori di dubbio, ma capire secondo gli schemi della medicina moderna, come e perché i malati guarissero, è impossibile.

    Spesso nella professione medica, come anche tra i guaritori, contano più i successi che gli insuccessi, perché sono i primi che procurano notorietà, per cui il valore del terapeuta è dato dal numero e dal valore dei successi, anche se questi sono minimi rispetto agli insuccessi, ma nel caso delle streghe in particolare il discorso è diverso.

    Curiosamente non risultano molte denunce per il fallimento, fatto che sarebbe stato con molta facilità propagandato dagli avversari, dei loro trattamenti terapeutici; le denunce semmai venivano sporte perché la strega si rifiutava di prestare la sua opera, o perché si presumeva che avesse operato dei malefici, ma di rado per gli insuccessi, malgrado molti dotti si peritassero di mettere in guardia la gente dalla falsità e dalla malafede delle streghe che per poter guadagnare denaro promettevano cose impossibili o si arrogavano capacità che non possedevano.
    Nel Congresso notturno delle lammie, Girolamo Tartarotti ricorda il caso riportato dal teologo Gerson di una spigolistra (ciarlatana) francese del 1424:

    (…)la quale per far danaro senza fatica, imboccava novelle alla gente credula, dando ad intendere di essere una delle cinque femmine mandate da Dio per redimere innumerabili persone, di conoscere alla cera l’interno, e le colpe d’ognuno, e di liberare ogni giorno tre anime dall’Inferno alle quali cose procurava di dar credito con estasi, visioni e marche.

    Un altro caso riguarda una tale Caterina Donati, processata a Trento nel 1710, che:

    (…)pretendeva di sapere per rivelazione lo stato de’ defunti, quanto l’anime dovessero stare nel Purgatorio, e di che suffragio abbisognassero. Si vantava d’aver sudori eccessivi, che dalle persone di pasta dolce venivano raccolti e conservati per divozione, et assicurava molti della gratia di Dio e d’altri privilegi particolari.

    Questo genere di streghe corrisponde alle nostre santone, capaci di guarire identificando il male attraverso delle visioni.

    Le streghe conoscono molto bene l’impiego dei semplici e lo stesso che troviamo riportato nei processi è spesso descritto negli erbari ad uso di farmacisti e medici. Ad esempio troviamo riportate sia sul Mattioli che sul Durante molte delle virtù terapeutiche attribuite alla malva nell’uso terapeutico delle streghe, le quali non potevano avere imparato la loro arte dai libri perché quasi sempre analfabete. Il recente libro l’Erba delle donne mette in evidenza l’uso delle rose rosse, che una certa Lucretia Mariani, strega inquisita nel Lucchese, impiegava in empiastri nella regione cardiaca. Il Mattioli dice:

    (…)ristringono e infrigidiscono e maggiormente riescono allo scopo quelle secche (…) la decottione delle secche fatta nel vino e poi spremuta, vale à i dolori delle orecchie, della testa, delle gengive, degli occhi (…) e della matrice, unto con una penna (…) Le rose secche senza spremere il succo, medicano, empiastrate, le infiammazioni dei precordj, l’humidità dello stomaco e il fuoco sacro. Le secche trite in polvere si spargono in su le scorticature delle cosce e mescolami negli antidoti delle ferite, e in quelle composizioni che chiamano anthere. I fiori, che sono in mezzo delle rose, secchi e polverizzati sopra le gengive proibiscono i flussi del corpo e lo sputo del sangue.

    Riporta il Viola in Piante medicinali e velenose della flora italiana a proposito della Rosa gallica (Rosa rossa, Rosa maggese, Rosa mistica):

    I petali della Rosa gallica, parte usata attualmente in medicina ed iscritta nella farmacopea ufficiale contengono una sostanza colorata, la cianina, legata ad un sale organico, tannino, acido gallico e quercitannico, zucchero, materie grasse ed una essenza formata da stearoptene solido e da una parte liquida, che è un miscuglio di geraniolo, citronellolo, linalolo, nerolo, ecc.

    A proposito delle azioni farmacologiche:

    La Rosa viene attualmente usata come astringente e tonico gradevole. All’interno si usa l’infuso ed il vino di Rose contro i catarri, le diarree croniche, la leucorrea e come tonico alimentare. E’ usata anche nelle lesioni polmonari iniziali. All’esterno si usa l’infuso come collutorio, come collirio astringente, come risolutivo contro ulcere atoniche, tumori freddi, oftalmie croniche. Il miele rosato è impiegato specialmente per le affezioni della bocca e delle gengive.

    Naturalmente tutti i semplici a seconda della zona o delle stagioni, venivano utilizzati come rimedi e quindi tutte le erbe, sia le selvatiche che le alimentari, avevano un loro impiego. All’uso dei semplici spesso si aggiungevano sostanze di derivazione animale, come ad esempio il sangue (molto usato quello di piccione), l’urina, la polvere di ossa e il grasso anche umani.

    Spesso le cure erano complesse e con una posologia articolata che comprendeva più rimedi. Ecco un esempio di prescrizione di una strega processata nel mantovano, per aver guarito una ragazza affetta da dimagrimento progressivo diagnosticato come malia: decotto di diverse erbe, un bicchiere di succo di ruta e di finocchio, un biscottello mangiato con succo di malvagia, la malva. La assunzione di tutti questi ingredienti provoca il vomito alla ragazza permettendole di buttare via la malia e di guarire. Molto spesso il ricorso al vomito permetteva di risolvere le situazioni giudicate come malie o malefici e comportava la guarigione immediata della malattia.

    Ancora da L’erba delle donne apprendiamo che la strega Jacoba, detta Baldracha fu processata dall’inquisizione modenese nel 1536 con l’accusa di aver stregato una donna, certa Elisabetta, con un grappolo d’uva selvatica. La donna dice di non aver avuto più pace da quel momento fino a quando non vomita:

    (…) certe festuge, due agugie de mazola, uno pezo de cordella, una croxeta de stagno, uno cordoncello de seta negra involuppata un cordone cum cinque groppi, uno lazo, una pezola e certi capelli involuppati cum arte simile.

    Lo stesso libro nota che il vomitare oggetti non è pura superstizione creduta dal popolino ignorante e riporta in una nota un caso descritto da Gregory Zilboorg nel suo Storia della psichiatria:

    John Lange uno dei clinici più famosi, descrive il caso di un suicida su cui venne fatta un’autopsia e nello stomaco del quale furono trovati un pezzo di legno, quattro coltelli, due pezzi di ferro e un ciuffo di capelli. Cita pure il caso di una donna che aveva vomitato davanti ai suoi occhi due chiodi di ferro, due aghi e un ciuffo di capelli.

    Ancora oggi la stessa fenomenologia, si ripresenta in molteplici casi descritti da studiosi, anche estranei al mondo religioso, di possessione diabolica.

    Molto difficilmente i rimedi erano impiegati come pura prescrizione medica, essi erano sempre accompagnati da atti magici oppure la loro virtù guaritrice era esercitata per contatto semplice o mediato. A volte non era neanche necessario usare medicamenti “fisici” ma bastavano alcune parole seguite da particolari segni, come nel caso dei secret valdostani. Questi secret erano trasmissibili con l’obbligo di mantenere il silenzio sul “dono” verbalmente ricevuto al momento del trapasso dal precedente depositario.
    La tradizione prettamente contadina dei secret si può ritrovare con esigue variazioni in tutta la penisola.

    Domenica de Boari inquisita nella curia vescovile di Treviso cura la mala ora e cioè le conseguenze della malia e del malocchio gettati in vari modi: direttamente sulla persona, sulla biancheria lasciata fuori la notte ad asciugare oppure per mezzo di incantamenti. Le malattie curate dalla Boari risultano essere: stati di deperimento per carenza di assimilazione, l’epilessia e le convulsioni infantili. Singolare risulta il trattamento. Innanzitutto segna la camicia, la spiega e vi fa sopra una croce dicendo:

    Torna in drio, molla ora, non ghe franzer le sue osse, non ghe suzzar il suo sangue!

    poi segna direttamente il malato allo stesso modo sul petto, quindi fa cogliere delle foglie di ruta, le fa scaldare nell’olio e con la ruta stessa unge il dorso del malato disegnando una croce dalla spalla destra al calcagno sinistro e dalla spalla sinistra al calcagno destro. Ogni volta ripete la formula ed infine raccomanda di porre il malato a letto ben coperto con un drappo caldo. Se il malato ha il capo gonfio di vesciche lo segna sul viso con la stessa formula, quindi prepara delle fumigazioni per il viso con foglie d’olivo, cera ed assenzio, fumigazioni che possono essere terapeutiche o preventive.

    Questo trattamento completo fu eseguito su un’ anziana mendicante storpia di una mano da tanto tempo, che guarì completamente. Il trattamento andava eseguito per tre mattine consecutive. Domenica de Boari aveva licenza di segnare rilasciata dalla curia. Periodicamente doveva rinnovare la sua licenza eseguendo un trattamento al cospetto del vicario e quindi sottoponendosi ad interrogatorio.

    Un’altra guaritrice inquisita a Modena nel 1519 spiega come opera per diagnosticare un maleficio in un bambino. Chiede alla madre del bambino di prendere della herbam bonam e prepararne un decotto con acqua di canale, con il quale la guaritrice lava con cura il bambino pronunciando le formule prescritte sub silentio. Il liquido deve quindi essere posto sotto la culla del bimbo in un catino con immersa una croce di legno. Se dopo poco tempo l’acqua in superficie si rapprende, ciò è indice della presenza del maleficio.

    Degna di nota è la guarigione operata su un bambino che tutti giudicavano morto. L’imputata aveva succhiato una per una tutte le giunture del corpo del bambino mentre gli cospargeva il corpo di sale. Aveva continuato questa operazione fin quando il bambino non prese a lamentarsi gridando: oimè state ferma’.

    Racconta al Sant’Uffizio una certa Elena, chiamata la Draga Indemoniata perché è posseduta e guidata da uno spirito che si chiama Drago:

    L'artemisia abrotanum in un erbario dell'800 conservato presso il Dipartimento di Botanica del Museo di Storia Naturale di Londra

    Io vivo filando qualche pugno di lino, sono paralizzata dal lato destro e quasi cieca da 33 anni, ho la capacità di diagnosticare il male di un bambino da un suo vestitino. Riesco a capire se è consunto per colpa delle streghe o se ha lo spasimo, convulsioni o spavento. Se è stregato prendo cinque cuori di ruta, cinque di abrotano, cinque di assenzio, cinque di erba stella e cinque spicchi di aglio. Mentre eseguo il trattamento dico cinque pater nostri e cinque ave marie ad onore delle cinque piaghe di messer Gesù Cristo. Prendo inoltre del carbone della notte di Natale. Faccio pestare tutte queste cose tra due pietre di marmo e vi faccio spargere sopra due soldi di olio di alloro. Con quell’impiastro faccio ungere il bambino disegnando una croce dalla spalla, giù, sul corpo, dicendo: Al nome di Cristo e della gloriosa Vergine Maria e della Santa Trinità, che il Signore sia quello che ti libera da questa infermità. Questa unzione si fa il terzo o l’ultimo giovedì della luna. La domenica successiva faccio il bagno al bambino con acqua contenente della liscivia e le foglie rimaste della ruta che erano intorno ai cuori, lo lavo disegnando la croce come è stato già fatto per l’unzione. Finito di fare il bagno, quando l’acqua del mare scende per la bassa marea, faccio gettare l’acqua del bagno nel canale dicendo: Così come va via quest’acqua nel mare, così vada via et scampa ogni tua infìrmità. Lo stesso trattamento è valido per lo spasmo.

    Esaminiamo i componenti dell’operazione come si fa di solito nelle opere che si occupano di questi argomenti: la ruta è da sempre un’erba officinale usata a scopi terapeutici. I suoi frutti sono usati contro le malattie delle vene ed hanno proprietà antispastiche e tranquillanti. L’olio essenziale agisce sull’utero e risulta velenoso a dosi elevate, è irritante se usato esternamente. La radice di ruta introdotta nell’utero provoca l’aborto.

    L’abrotano, come la ruta, si coltiva negli orti, contiene un alcaloide (abrotanina) e trova impiego nelle forme di deperimento organico, nell’anemia e nella clorosi, nelle forme reumatiche e gottose e nelle scrofole. L’assenzio in olio essenziale o in infuso è usato contro l’anoressia e i disturbi del fegato, si impiega infine contro le verminosi dei bambini. L’erba stella usata in cataplasmi con la piantaggine è efficace contro le ulcere varicose, nelle piaghe e nelle pustole. L’aglio possiede numerose proprietà medicamentose.

    Il numero cinque è usato chiaramente con valenza magica, infatti viene ripetuto anche per spiegarne l’effetto, le 5 piaghe di Cristo, che evidentemente hanno sostituito un emblema precedente.
    Il carbone ottenuto dalla legna bruciata la notte di Natale è magico per simpatia, poiché quella è la notte in cui si trasmettono i segreti e la notte in cui gli animali parlano.
    Impiegare due pietre per fare la poltiglia significa infondere all’olio la forza della terra.
    L’olio di alloro, che si ottiene dalla spremitura delle bacche, è impiegato in fitoterapia per i dolori ed i gonfiori di origine reumatica e gottosa.

    Ma queste spiegazioni, comuni per gli studiosi del fenomeno della magia, derivano da associazioni di significati di tipo antropologico e forse accrescono la confusione senza chiarire nulla di significativo e di utile alla sua comprensione, noi crediamo che il tutto vada osservato in un’altra ottica. Ma affrontare direttamente il problema può non essere facile, in alcuni casi si può provare in modo abbastanza certo che le inquisite nel rispondere alle domande davano ricette e metodi terapeutici falsi o perlomeno falsati, specialmente quando entravano nei particolari e facevano questo evidentemente per mantenere il segreto del vero trattamento. Sempre Elena la Draga, che appare tanto disposta a collaborare dicendo tutto ciò che sa, alla domanda su quali infermità sappia curare risponde tra l’altro:

    E se una donna avesse eccessivo scolamento bianco e rosso, prescrivo dì prendere un’oncia di senna e tre bezzi di uva passita, che si pongano in infusione in un pentolino con un bicchiere e mezzo di sciroppo, la sera si fa bollire e si lascia che si consumi di un terzo. Ciò che rimane si conserva al caldo fino al mattino, quindi si cola e si somministra al malato, quindi segna il malato ben pulito e lavato.(…) Et è cosa mirabile.

    Uno degli elementi che appaiono più frequentemente e con usi e significati diversi nella medicina dell’epoca dei processi alle streghe e nei processi stessi è l’uso del sangue.

    In questa stampa tedesca del XVI sec. vediamo rappresentato il caso emblematico di Simonino di Trento (1472-1475), canonizzato come "martire fanciullo trucidato crudelmente dai Giudei" e tolto dal martirologio nel 1965. Chiaro esempio di antisemitismo, rientra nella casistica dell' "accusa del sangue", incriminazione antisemita diffusa a partire dall'XI secolo, secondo la quale gli ebrei userebbero sangue umano per motivi rituali. Tale infamante accusa, spesso del tutto gratuita, veniva rivolta anche alle streghe

    Analizzando alcuni verbali d’accusa rileviamo che le presunte streghe usavano largamente il sangue e spesso, come accade di solito nelle loro attività, con finalità opposte. Già in età alto medievale non era stato raro, da parte dei redattori di testi giuridici, come anche nelle iconografie precristiane, l’impiego dei termini lamiae, strigae e striges per indicare demoni femminili, accusati di succhiare il sangue ai bambini.

    Nei processi è verità accettata che le streghe si trasformino in gatte e la notte si rechino nelle case per succhiare il sangue ai bambini, soprattutto in fasce. Le streghe stesse sotto tortura, con chissà quale attendibilità, confessavano i misfatti. Una confessione del ‘600 nel tribunale di Udine recita:

    Andavamo in forma di gatto e con un’ongia di gatto li levavano un poco di pelle dalla sommità di tutte le dita delle mani, poi con la bocca succhiando queste aperture foravano le mie compagne tutto il sangue delle creature e l’inghiottivano, poi rimettevano quella pelle nel suo luogo, e si rinsaldava in modo che non si conosceva macchia veruna, solo che quelle creature restavano senza sangue e senza carne tutte consumate solo con pelle e ossa, così bisogna che mòino.

    Nei trattati del ‘500 leggiamo:

    Vanno anche nelle case di quegli infanti che vogliono assalire, introducendosi e balzando, trasformate in gatti, attraverso le finestre e camini. Salite sul letto di questi piccoli, succhiano loro il sangue dalle dita delle mani e dei piedi, dalla bocca dello stomaco, dalle fontanelle e dalle altre parti tenere di questi corpicini, i quali da ultimo, per questo motivo, si spengono di consunzione dopo alcuni giorni.

    Molto spesso il sangue succhiato dai bambini veniva mescolato a cenere e quindi impastato con una focaccia o un biscottino che il bambino doveva mangiare, l’effetto poteva essere, a seconda dei casi, il maleficio o la guarigione dalla malia.
    Il sangue poteva anche essere usato nelle malie d’amore. Il sangue della donna, estratto o mestruale, dato da mangiare con inganno al marito o all’uomo amato lo legava indissolubilmente.
    In realtà il sangue umano era impiegato come rimedio farmacologico anche nella medicina ufficiale. Ne ritroviamo descritto l’impiego con le relative preparazioni nei trattati degli speziali. Anche il Mattioli lo raccomanda come antidoto per i morsi degli animali velenosi.
    Ma una cosa interessante è che alcune pratiche terapeutiche delle streghe prevedevano che si succhiasse sulla pelle di alcune zone del corpo dei bambini, senza far fuoriuscire il sangue. E’ il caso già visto, del metodo di succhiare le giunture per far riprendere coscienza nei casi forse di coma profondo, ma si trovano anche altri impieghi, facenti parte di un rituale complesso:

    Et mi portò alcune herbe strocolate [pestate] in una scudela, che sapevano da aglio, et mi disse che dovesse segnar questa putina cominciando da la man zancha [parte sinistra] tirando fin al piede destro, et dicessi Nel nome di Dio e della Santissima Trinità, et dicessi: o Adriana, le strighe t’han magnato, li Tre Maggi ti guarirano. Et mi disse che nel tempo che signava, cioè in quelli giorni, non si desse cosa alcuna ad altri. Et lecava quella putina nella fronte e nelle tempie e poi spudava, et facea la croce sopra quelli spudi, e diceva non so che, che io non intendevo.

    Ed un altro teste:

    Questa Camilla ha segnato duo o tre volte una mia fantolina de tre anni, che io me ritrovai presente una volta, quando la segnava, che la liccava con la sua lengua il fronte della creatura, et poi spudava in terra, et diceva alcune cose piano, che non se intendeva.

    Molto probabilmente il vero gesto non era quello di leccare, ma quello di succhiare qualcosa dall’interno della testa e gettarlo via sputandolo. Da questo gesto simbolico di succhiare il principio della malattia può essere stato molto facile far derivare la pratica di succhiare il sangue a fini malefici

    Alexandre Marie Colin, The Three Witches from Macbeth, olio su tela del 1827 - collezione privata. Notare il "bastone di Asclepio" anche chiamato impropriamente "caduceo a un serpente". La mitologia ci narra di come Glauco, figlio di uno dei Minosse, inseguendo un topo, sia scivolato entro una giara colma di miele. Asclepio, subito intervenuto, mentre esaminava il corpo del fanciullo privo di vita, si accorse che un serpente gli si stava avvicinando: percosse con il bastone il rettile e lo uccise. Subito, comparve un secondo serpente con in bocca un ciuffo di erba, che pose sul capo del compagno morto. Il serpente tornò in vita e scappò via, lasciando a terra il ciuffo d’erba con il quale Asclepio risuscitò il giovane Glauco. Da allora il bastone ed il serpente furono considerati sacri ad Asclepio e alla Medicina. Quando Asclepio morì e fu assunto tra gli dèi, anche il serpente fu posto tra gli immortali nel cielo, con la costellazione del Serpentario.

    Dall’esame anche superficiale delle fonti storiche, siano esse tutte attendibili o meno, emerge una figura di strega totalmente diversa da quella tradizionale, della fattucchiera infarcita di superstizioni. Ciò che risalta è la medichessa, la guaritrice, l’ostetrica, l’amministratrice di una medicina popolare talvolta empirica, spesso ma non sempre, in contrasto latente o esplicito con le regole del cristianesimo. Come grande conoscitrice dei filtri, la strega può far recuperare la potenza o il desiderio sessuale perduti, può far rinverdire e rinsaldare i matrimoni, può garantire la fertilità e completare il matrimonio con i figli, ma può anche insegnare la contraccezione impedendo le gravidanze non volute, può procurare l’aborto con rimedi e con mezzi magici o meccanici.
    C’è anche chi ha voluto avvalorare le accuse di infanticidio giustificandole con l’assegnazione alla strega di una funzione di regolazione demografica. Questa valutazione mi sembra azzardata e del tutto gratuita: le streghe erano dette infanticide perché uccidevano i bambini prima di nascere, ma soprattutto perché dovevano essere screditate agli occhi della popolazione.
    La contraccezione, l’aborto e perfino l’infanticidio sono stati praticati con naturalezza e continuità nei costumi pre-cristiani. Ogni popolazione si è sempre preoccupata di mantenere un equilibrio accettabile tra la necessità di procreare ed il controllo dell’aumento numerico della comunità, rapportandolo alle condizioni economiche, ambientali, storiche e politiche dell’epoca. Le misure andavano dal celibato e dalla posticipazione del matrimonio all’allattamento prolungato, alla contraccezione ottenuta con mezzi artificiali e con l’intervento della magia.

    Nelle varie zone della terra le pratiche contraccettive erano diverse, da quelle puramente magiche quali potevano essere l’intrecciare cortecce di piante selvatiche, a quelle che prevedevano l’astensione dai rapporti sessuali nei periodi fecondi. In America tra gli indiani Cherokee le donne masticavano la cicuta acquatica, usavano tamponi composti di foglie, radici ed erbe e diete appropriate che permettevano di evitare l’ovulazione. In altre zone si praticavano lavande con succo di limone oppure con l’acqua della decozione di piante adatte. L’antropologia contemporanea può fornirci una enorme quantità di esempi che nessun seguace della moderna scienza medica ha mai pensato di porre sotto verifica e studiare in modo adeguato. Nelle società greca e romana si perfezionarono le conoscenze sulla contraccezione e sull’aborto che furono ben distinti da un punto di vista medico. Ne danno testimonianza molti autori come Aristotele, Lucrezio, Plinio, Dioscoride, Sorano, Ezio. Tutti questi autori collocarono la tecnica anticoncezionale nell’ambito della medicina preventiva.
    Se Empedocle e Platone erano pronti a prendere in seria considerazione il problema del controllo demografico e quindi a considerare normale e più che lecito l’aborto, non è altrettanto chiara l’esigenza di Ippocrate nell’inserire nel suo giuramento il passo destinato a divenire famoso e ad essere strumentalizzato per ben più di un millennio e che recita: similmente non darò ad una donna un pessario abortivo. Ippocrate era contrario agli abortivi? Possiamo supporre, deducendolo da studi antropologici sul periodo delle streghe, che l’uso del pessario fosse accompagnato da pratiche magiche e che queste pratiche fossero in contrasto con le regole o con i presupposti della religione praticata dalla setta di Ippocrate. Quest’ultimo infatti non doveva essere contrario in linea di principio all’aborto se in un’altra sua opera Sulla natura del bambino, consigliava alla donna di procurarselo con il saltare sollevando i piedi il più in alto possibile.

    Per il cristianesimo l’uso di pratiche antifecondative o abortive è stato sempre un peccato, in quanto considerato atto contrario alla vita, salvo alcune deroghe nei primi secoli che, continuando la tradizione delle concezioni del giudaismo ellenistico, giustificava l’aborto nei casi di indigenza che avrebbe impedito la sopravvivenza del bambino. Dopo i primi secoli chi procurava l’aborto era da considerare al di fuori della Chiesa e fino al 1074, quando si tenne il Concilio di Rouen, era da esecrare anche la donna che morendo avesse impedito la nascita del bambino che aveva in grembo. Infatti le donne morte in gravidanza o le donne morte di parto non potevano essere sepolte in terra benedetta. Su questo terreno vissero le streghe fino a quando furono portate alla ribalta dai tribunali dell’Inquisizione. Quei processi, che sempre includono nei capi d’accusa l’aborto procurato e la preparazione di filtri contro la fecondità, dimostrano chiaramente che i sistemi anticoncezionali erano comunque molto diffusi durante il Medioevo.
    Questa è l’opinione di Sprenger ne Il martello delle streghe:

    La verità esposta sopra viene provata al tempo stesso da quattro orribili atti compiuti sia sui bambini ancora nell’utero materno sia sui neonati. Siccome i diavoli devono eseguirli per mezzo delle donne e non degli uomini, quell’omicida si dà da fare per trovare alleati fra le donne più che fra gli uomini. E di tal fatta sono le opere.
    I canonisti, che trattano dell’impedimento ottenuto per stregoneria più di quanto non facciano i teologi, dicono che la stregoneria fa sì non solo che qualcuno, come è già stato detto, non riesca a compiere l’atto carnale, ma anche che la donna non concepisca o, qualora concepisca, in seguito abortisca. A questi si aggiungono un terzo e un quarto modo: qualora non riescano a provocare l’aborto, uccidono poi il bambino oppure lo offrono al diavolo.
    Intorno a questi primi due metodi non sussiste alcun dubbio perché l’uomo con mezzi naturali e senza l’aiuto dei diavoli, per esempio con erbe e con altri impedimenti, può fare in modo che la donna non possa generare o concepire. Ma di questo si è già trattato. A proposito degli altri due metodi occorre esaminare se possano essere praticati anche dalle streghe e certo non sarà necessario dedurre argomentazioni qualora i giudizi e gli esperimenti di estrema evidenza rendano le cose più credibili.
    Quanto al primo dei due metodi, certe streghe, che vanno contro l’inclinazione della natura umana, anzi contro le condizioni proprie di tutte le bestie, eccettuata solo la specie del lupo, sono solite divorare e mangiare i bambini. A questo proposito l’inquisitore di Como, di cui si fa menzione altrove, ci ha raccontato che per questo motivo era stato chiamato a fare l’inquisitore tra gli abitanti della contea di Barbia. Infatti, un tale, cui era stato rapito un bambino dalla culla, mentre spiava un convegno notturno di donne, aveva visto e constatato che il bambino veniva ucciso e divorato, dopo che ne era stato bevuto il sangue. Così, in un solo anno, quello immediatamente scorso, mandò al rogo quarantuno streghe, mentre altre si erano rifugiate presso l’arciduca d’Austria Sigismondo. A conferma di questo vi sono alcuni scritti di Qiovanni Nider nel suo Formicarius. Il ricordo del recente libro e di ciò che egli scrisse è ancora vivo, per cui non risulta incredibile come può sembrare. Sono proprio le streghe ostetriche a causare i danni peggiori, come hanno raccontato a noi e ad altri le streghe pentite, le quali dicevano che nessuno nuoce alla fede cattolica più delle ostetriche. Infatti quando non uccidono il bambino, lo portano fuori dalla camera come se dovessero fare qualcosa, ma sollevatolo in aria lo offrono ai diavoli. Nella seconda parte del settimo capitolo si parlerà dei metodi che osservano le streghe in queste cose vergognose. Ma prima di affrontare questo argomento occorre una premessa a proposito del permesso divino. Infatti fin dall’inizio è stato detto che tre cose concorrono necessariamente all’effetto stregonesco: il diavolo insieme con la strega e il permesso divino.

    Di fronte a questo quadro vi erano invece delle guaritrici, spesso l’unica o l’ultima risorsa per le donne medievali, capaci di dosare la belladonna contro le minacce d’aborto e la segale cornuta o la cantaride per procurare l’aborto. Vi erano anche ostetriche che non prendevano neanche in considerazione il parto cesareo perché sapevano studiare ed eventualmente modificare manualmente la posizione del feto e facilitarne l’espulsione con fumigazioni, pozioni ed impacchi. Tutte queste pratiche mantenevano il parto all’interno delle funzioni fisiologiche senza assegnare la maternità alla competenza della patologia.

    Nell’arco di diversi secoli, a seconda del contesto in cui vennero considerate, le guaritrici furono ridicolizzate o combattute come medichesse senza istruzione, cariche di superstizioni che si arrogavano il diritto di curare le malattie, diritto che si voleva monopolio dei medici accademici. Ciò accadeva anche se i medici e gli apotecari stessi, talvolta impotenti di fronte alla malattia, erano costretti per i loro familiari o per la propria professione, a ricorrere alla tradizione popolare, al consiglio o all’operato di quelle stesse che erano inquisite per herbarìe, incanti e striggamenti.

    Alla fine del ‘500, quando le streghe avevano già subito forti colpi e quando la campagna diffamatoria era stata già portata avanti con impegno, c’era chi proclamava sotto processo:

    Signori, io piglio oglio di aneo, camamilla et màsticci et altri ogli secondo le malarie, et piglio anco dell’oglio commun, dove metto dell’aglio et della ruta et imbronio et faccio bollir, che è bon per li vermi et per la renella brutta, che è una cosa che nasce alli fantolini. Et queste cose le ho imparate da Maritana Malanona, che è morta, che era comare in Murano et a Venetia. Era una donna sufficiente, che andava a far collegio con li medici.

    Viene detto a chiare lettere che i medici chiamavano a consulto le fattucchiere, ma la cosa più significativa è che gli inquisitori non se ne stupiscono, non replicano, evidentemente non lo trovano affatto strano.
    In un altro caso è la moglie di un medico che ha paura che la sua malattia dipenda da una fattura ed invia una cuffia da notte alla strega, è un teste che lo racconta e non l’accusata:

    (…) ritrovandomi in Venetia per distrigarmi d’alcune mie liti contra mio fratello, io hebbi amicitia con una gentildonna moglie del’Eccellente medico fisico Parisano, che sta in Venetia, chiamata signora Helisabetha, la qual mi pregò che gli dovesse trovare una massara in Friuli. Così dunque io venni in Friuli, et qui a Latisana trovai quella Francischina, cognata di Brezzanai, et la persuase a dover andar per massara con questa gentildonna. La qual andò et, quando stete alquanto con detta gentildonna, essa gentildonna s’amalò et stete amalata gran tempo. La qual desiderava che fusse conosciuta la sua infirmità, dubitando d’esser fatturada. Un giorno questa Francischina gli disse che si ritrovava una Apollonia di lacò in Latisana, che benissimo conosceva coloro che erano fatturati. Finalmente questa Francischina venendo a Latisana, la sudetta gentildonna ordenò che dovesse parlar con questa Apollonia a veder se conosceva la sua infermità, et li dette una scuffia.

    Addirittura i religiosi, malgrado tirasse forte aria di scomunica non erano completamente esenti dall’influenza delle streghe e si hanno situazioni ancora più scottanti del caso dei confessori che per lungo tempo non vietarono a queste ultime di operare, dice una inquisita con aria abbastanza insolente al procuratore che la interroga:

    Doppò che il nostro Piovan me disse che questa non era bona oration da dir, io non l’ho più detta. Che diresti se un prete se ha fatto segnar da mi con mandarmi le cordelle! Il qual ha nome don Zuane da Precenise, pocco lontan della Tisana, che fu già tre anni.

    Anche stavolta nessun commento e nessun moto di stupore, l’interrogatorio continua normalmente.
    Malgrado fossero state isolate, messe al bando, costrette ad abiurare, esiliate e molto spesso eliminate fisicamente, le guaritrici continueranno la loro opera in condizioni sempre più difficili e rischiose. Tanto che a tutt’oggi, nell’era del computer, alcune di quelle pratiche ancora sopravvivono. Ancora oggi al margine della legalità e ancora oggi, come al tempo dell’inquisizione, vivono nel sottobosco dei pochi guaritori popolari rimasti.

    Esaminando oggi alcune delle antiche pratiche e confrontandole con gli atti dei processi in cui esse sono descritte, abbiamo la conferma che esisteva da parte delle streghe la coscienza di essere in una posizione contrapposta al sistema di pensiero dominante. Una teste, chiamata a descrivere l’operato di una guaritrice racconta l’operazione:

    Io li diedi una cordella o cimossa, d’una banda io la tenivo et lei teniva dall’altra banda, et sopra detta cordella piano diceva alcune parole, et con la cordella mi misurava il brazzo destro, et la prima volta trovava la cordella ch’era slongata, al fin con le sue superstitioni fece scurtar la detta cordella. Poi mi ordenò che dovesse detta cordella metter sotto la testa, così feci.
    So un’altra volta ancora che, sendo amalato un fiol del sudetto Antonio mio padrone, lo condusse a casa di donna Fior Carratiera, la qual segnò detto puto con la cordella, che ‘l puto era cinto [fasciato]. Lei lo dislegò, et misurava il brazzo destro al puto, dicendo alcune parole secretamente. Doppò dette le parole et misurato, m’ordenò che metesse la cordella sotto la testa alla creatura. Et tre matine fu segnato, et le parole, che diceva, io non intendeva.

    Ancora un’altra donna racconta:

    Cominciò sopra questa schuffa [cuffia] a segnar, et con la spana [palmo] della mano misurava per vedder se la schuffa si slongava o schurtava. Il che fece anco sopra una cordella.

    In un’altra confessione è detto:

    Quando mi venivano portate delle cordelle, io le spannava [misuravo col palmo] con la mano, et alcune volte me le mesurava sul brazzo, et li dicevo secondo che me pareva a me, che havevano più o manco male. Et questo lo consideravo da me, perché li interrogavo come si sentivano. Loro me lo dicevano, et così io consideravo da me et li davo quelli remedii secondo le infirmità.
    Interrogata se si faceva dare cordelle o altri vestimenti dell’infermo, et a che l’adoperava:
    respondit: Signor sì, che molte volte me si portava a casa delle cordelle o altri panni de infermi, quando erano lontani che io non potesse andar da loro, et sopra detta cordella io facevo el segno della croce dicendo: In nome del Padre, del Fio et del Spirito Santo. Amen. Et li dicevo una oration sopra, che è questa:
    Al nome de Dio et della Verzene Maria, che metta la sua man inanzi la mia. Cinque Santi sta in terra, che non t’aida, et tre sta in cielo, che t’aiderà, Qasparo, Marchio et Baldissera, sì te chiama, (et li dicevo il nome dell’infermo), Catherina sì te chiama, et ti segna da mal de strigadura, de mal de scontradura, de mal de occhiadura.
    Et poi li facevo il segno della croce: In nome del Padre, del Fio et del Spirito Santo: Amen.

    Poco dopo, nello stesso interrogatorio, la stessa inquisita dice:

    Io li dicevo delle bugie per haver del pan et del vin et per guadagnar qualcosa per viver. Et sopra quella cordella io diceva quella prima oration, che comincia Al nome de Dio etc. Et io, per dir la verità, col spanar la cordella la faceva slongar et scurtar secondo che pareva a me, ma mi pareva una buffonaria questa, ma dicevo alli infermi che dovessero pregar Iddio et dir chi sette et chi quindici pater nostri et quindici ave marie, acciò che la Divina Providentia provedesse al suo mal.

    E’ evidente il tentativo di dichiararsi imbrogliona per non incorrere nell’accusa di eresia, cosicché questa parte della dichiarazione ci fa dubitare dell’intera confessione.
    Nella ricerca fatta negli anni ’70 da Luisa Selis sulla presenza delle streghe in Sardegna oggi, è riportato di una guaritrice settantacinquenne sarda che, tra altre numerose cose che pratica, tratta l’itterizia:

    Per diagnosticare s’istriadura (l’itterizia) Antonia misura con un filo di lana sarda il malato, scalzo e con le braccia distese, dalla testa ai piedi e dal dito medio sinistro al dito medio destro. Se la persona è affetta da itterizia l’altezza è inferiore alla larghezza. Antonia, per curarla, taglia a pezzi il filo e lo brucia assieme a rosmarino, incenso, cera benedetta e qualche piuma bianca di barbagianni dentro una tegola che fa passare per tre volte sulla testa del malato facendo segni di croce e recitando formule magiche; poggia per terra la tegola sulla quale il malato deve saltare per tre volte inspirando i fumenti.

    Un’altra guaritrice che impiega il metodo della cordicella risiede attualmente nel Casentino, a Verna di Poppi, e tratta lo sforzo e cioè le malattie dello stomaco che una volta si dicevano originate da sforzi fisici particolarmente intensi. Per la sua operazione, la guaritrice impiega una cordicella non più lunga di un metro legata ad un chiodo infisso nel muro. La cordicella, a partire dalla sua estremità libera, riporta, segnata con un nodo, la lunghezza dell’avambraccio della guaritrice, dal gomito alla base del pollice.
    Di fronte al malato che vuol essere curato, la guaritrice prende la misura del proprio avambraccio e, in caso di malattia di sua competenza, la cordicella risulta inspiegabilmente, ma in modo visibile, più lunga dell’avambraccio. La guaritrice, recitando sottovoce parole sue, continua a misurare la cordicella che, inspiegabilmente si accorcia fino a tornare della lunghezza dell’avambraccio. A quel punto il malato, che può anche non essere presente, è guarito.
    La stessa pratica è descritta in un processo del ‘500:

    Madonna Helisabetha, mia padrona, (…) mi mandò là di donna Fior Carratiera a far segnar Lucieta, sua figliuola, (…) et mi dete una fassa, sopra la qual essa Fior con le mani tre volte disse: In nomene Patris, Filii et Spiritus Sancii. Amen. Et ordinò a me che dovesse dir cinque pater nostri et altro tante ave marie. Et così portai la fassa alla mia padrona, et guarì la creatura. Et misurava la fassa con il brazzo, cominciando dal gomito (…) fino al deto polece.

    Come abbiamo visto nelle citazioni riportate nei processi, le streghe, alla richiesta di quali fossero le formule magiche, recitano sempre formule religiose. La guaritrice del Casentino ingenuamente racconta che la sua formula prevede la recitazione della nota preghiera Ave Maria, ma recitata al contrario, a partire dall’ultima parola fino alla prima. Alla richiesta se lo ritenesse un peccato, ha risposto che non può essere peccato fare del bene, e guarire dei malati è certamente fare del bene, il modo ha poca importanza.
    Dobbiamo notare che nelle pratiche di iniziazione alla stregoneria è prevista la recitazione del Pater Noster al contrario, al fine di liberarsi del legame del battesimo. Questo porterebbe a confermare l’ipotesi che il fenomeno delle streghe sia da ricondurre ad un movimento segreto organizzato, tendente a destabilizzare l’organizzazione di potere esistente allora. Per acquistare uno spazio a livello di massa, il movimento avrebbe fatto leva, con le capacità guaritrici delle pratiche magiche, sulla necessità di combattere la malattia, una necessità molto sentita in una realtà nella quale non vi erano altri mezzi per ricercare la guarigione.

    Comunque sia, anche se oggi è difficile dire cosa sia rimasto di questo insieme di antiche conoscenze ed esperienze, abbiamo visto anche se molto brevemente, che di tanto in tanto sorgono degli sprazzi di luce, talvolta alimentati da proverbi in dialetto, altre volte da storielle o da alcune abitudini ancora presenti a livello popolare. Questa poca luce lascia indovinare una imponente e forte tradizione di stampo pre-cristiano, distinta e legata alla realtà, ma al di sopra del vivere quotidiano, nella quale confluivano capacità ed esperienze vigorose e preziose, vissute forse individuaimente, ma sempre ricondotte all’interesse e all’uso collettivo, come è tipico nel mondo della medicina tradizionale.

    John William Waterhouse (Roma, 1849 – Londra, 1917) - Magic Circle, olio su tela, 1886

    John William Waterhouse (Roma, 1849 – Londra, 1917) - Magic Circle, olio su tela, 1886 (immagine Wikimedia Commons)

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    Rossi V. C.: Superstizione e pregiudizi, Milano, G. Agnelli, 1874
    Schipperges H. : Il giardino della salute, Milano, Garzanti, 1988
    Scibonio Largo. Ricette, a cura di A. Marsili, Pisa, Edizioni Omnia Medica, 1972
    Soldi A.: Agitare prima dell’uso, Milano, Ferro Edizioni, 1979
    Spinetti V.: Le streghe in Valtellina, Sondrio, Stab. Tip. Emilio Quadrio, 1903
    Statuto dell’arte dei medici e degli speziali, pubblicato dalla Camera di Commercio, Firenze, 1922
    Sterpellone L.: Stratigrafia di un passato. Storie parallele della medicina, Milano, Punto e Linea, 1990
    Teofrasto Paracelso (1493-1541 ) Scritti scelti, Milano, Fratelli,Bocca Editori, 1943
    Testi G.: Dizionario di alchimia e di chimica antiquaria, Roma, Casa Editrice Mediterranea, 1950
    Testi G., Esposito A.: L’estrazione dei sali e Gastrologia farmaceutica in Filippo Finelli, in: Lavori di Storia della Medicina, Roma, R. Istituto di Storia della Medicina, 1938
    Tonelli V.: Medicina popolare romagnola, Imola, Grafiche Galeati, 1981
    Trotula de Ruggiero: Sulle malattie delle donne, Torino, Edizioni La Rosa, 1979
    Viola S.: Piante medicinali e velenose della flora italiana, Novara, Edizioni Artistiche Maestretti, Istituto Geografico de Agostini, 1975
    Weber Domizia: Sanare e maleficiare. Guaritrici, streghe e medicina a Modena nel XVI secolo, Carocci (collana Studi storici Carocci), 2011
    Wightman W. P. D.: La nascita della medicina scientifica, Bologna, Zanichelli, 1975
    ZanazzoG.: Usi, costumi, pregiudizi del popolo di Roma, Torino, Soc. Tip. Edit. Nazionale, 1908
    Zanetti Z.: La medicina delle nostre donne ( 1892), Foligno, Ediclio, 1978
    Zamer G.: Medicina e Filosofia tra ‘500 e ‘600, Milano, Franco Angeli Editore, 1983

    Convegno nazionale dell’Accademia di Storia della Farmacia – Trento, 7- 8 giugno 2013

    Posted By on 7 maggio 2013

    Programma

    Venerdì 7 giugno 2013 – Sessione mattutina
    Fonti e ricerche per la storia della farmacia: l’esperienza trentina
    Trento, Galleria bianca di Piedicastello
    Ore 9:15 – Indirizzi di saluto
    9:30 – Sviluppo e diffusione delle farmacie in Trentino tra XVIII e XIX secolo:
    primi risultati d’indagine, Francesco Micheletti
    9:50 – Associazionismo farmaceutico in Trentino: UNIFARM e i suoi primi quarant’anni di vita,
    Edoardo de Abbondi
    10:20 – Pausa
    10:30 – Per la storia della sanità pubblica in Trentino: censimento e valorizzazione di fondi privati,
    a cura della Sovrintendenza per i beni librari, archivistici e storico-culturali della Provincia
    autonoma di Trento
    10:50 – Gli inventari delle spezierie: alcuni esempi nella Trento di fine Seicento e inizio Settecento,
    Marina Garbellotti
    11:10 – Biblioteche di farmacisti: interventi di recupero e catalogazione in Trentino, Rodolfo Taiani
    11:30 – Discussione
    12:00 – Interruzione lavori e trasferimento a Brentonico
    13:30 – Buffet

    Venerdì 7 giugno 2013 – Sessione pomeridiana – Comunicazioni a tema libero
    Brentonico, Palazzo Eccheli-Baisi – Via Mantova, 4
    Ore 15:00 – Il fondo antico della Biblioteca dell’Ordine dei farmacisti di Milano,
    testimonianza significativa dell’evoluzione della farmacia ottocentesca, Ernesto Riva
    15:20 – Tredici film per raccontare l’avventura cinematografica dei farmacisti nel cinema italiano,
    Roberta Lupoli
    15:40 – Il farmacista, da facile bersaglio ad attore protagonista nella letteratura e nel teatro,
    Gabriele Savini
    16:00 – Pausa
    16:10 – Lo speziale Giacinto Cestoni e il suo epistolario ad Antonio Vallisneri, Tiziana Vecchi
    16:30 – Da speciali a farmacisti: una storia piacentina, Antonio Corvi
    16:50 – Il mondo della farmacia all’indomani del Concilio di Trento, Giovanni Cipriani
    17:10 – Discussione
    17:30 – Visita guidata al giardino dei semplici e ai percorsi espositivi di Palazzo Eccheli Baisi
    allestite dalla Fondazione Museo storico del Trentino
    19:30 – Rientro a Trento e cena sociale

    Sabato 8 giugno 2013 - Sessione mattutina – Comunicazioni a tema libero
    Galleria bianca di Piedicastello
    Ore 9:15 – La farmacia in Valle d’Aosta dal Settecento all’Unità d’Italia,
    Pierangelo Lomagno e Federico Mion
    9:35 – La Legge Giolitti del 1913: il ricordo della prima legge sul riordino del Servizio
    farmaceutico italiano attraverso la voce della stampa dell’epoca, Carlo Luigi Bagliani
    9:55 – Il commento alla legge Giolitti di Aristide Carapelle (1925), Carlo Rubiola
    10:15 – L’erbario di Trento, ms. 1591 (sec. XIV): analisi dei contenuti, Ernesto Riva
    10:35 – Gli antichi segreti degli unguenti ed essenze odorose e il loro utilizzo
    per la salute del corpo e dello spirito, Giovanna Losi Giorgi
    10:55 – Pausa
    11:10 – L’antica spezieria romana di Santa Maria della Scala, proiezione documentario
    (regia Andrea Ielmini, 2011, 15’)
    11:30 – The Last Customer, proiezione documentario (regia di Nanni Moretti, 2003, 23’)
    11:55 – Discussione e conclusione lavori
    12:30 – Buffet

    Sabato 8 giugno 2013 - Sessione pomeridiana -Attività associative
    Ore 15:00 – Visita guidata alla sede di UNIFARM
    17:00 – Assemblea generale dell’Accademia italiana di storia della farmacia
    Ravina di Trento, sede di UNIFARM, via Provina, 3
    Serata di gala ore 20:30

    Domenica 9 giugno 2013 – Attività associative
    Ore 10:00 – Santa Messa e commemorazione dei soci scomparsi
    11:00 – Visita guidata al Centro storico di Trento
    14:30 – Trasferimento a Pieve di Ledro e visita guidata al Museo della farmacia Foletto

    Farmacisti, ciarlatani e cerusici

    Posted By on 27 aprile 2013

    Accanto alle due figure classiche, il farmacista ufficialmente riconosciuto ed i raccoglitori di erbe popolari, esiste o è esistita pressoché in tutte le società organizzate, la figura del farmacista itinerante.

    Farmacista-guaritore itinerante - Mercato di Dakar, Senegal, 2010

    Parte meno nobile nella storia della Farmacia, quella del farmacista ciarlatano fu figura niente affatto univoca, dalle mille sfaccettature, che nasceva e prosperava autonomamente, di solito senza alcun avallo esplicito da parte delle autorità sociali, se non per limitarne il campo d’azione.
    In occidente i “medici-farmacisti itineranti” continuarono ad esercitare la loro attività di terapeuti fino alla fine dell’Ottocento; giravano di paese in paese, di piazza in piazza, di mercato in mercato e a quanto risulta, molte volte, ammirati e seguiti dal pubblico.
    Farmacista itinerante di etnia Hmong. Mercato di Phonsavan, Laos, 2008

    Farmacista itinerante di etnia Hmong. Mercato di Phonsavan, Laos, 2008

    Spesso tollerati dalle autorità, qualche volta anche protetti, erano combattuti e disprezzati pubblicamente senza tregua dagli apotecari dotti che avevano ricevuto riconoscimento ufficiale con l’assegnazione della “piazza” a loro esclusività. Tuttavia è storicamente accertato, che questi ultimi abbiano raccolto piante, utilizzato pratiche, ricette, procedimenti anche su ispirazione di questi farmacisti ambulanti e che addirittura si siano sostituiti a loro nell’arte di vendere farmaci ed elisir “porta a porta”.

    Dal Medioevo in poi questa sorta di terapeuta girovago ha avuto molte denominazioni, indicanti capacità e ruoli diversi, ma che a causa della loro condotta spesso al limite della legalità e ad opera di medici e speziali, organizzati in corporazioni per la difesa del monopolio dell’esercizio del proprio mestiere, sono stati nel tempo raccolti e trasformati in epiteti ed espressioni di disprezzo.

    Pieter de Jode I (1585-1634) - I due ciarlatani

    Pieter de Jode I (1585-1634) - I due ciarlatani


    I ciarlatani, cerretani, ciurmatori o ciurmadori, empirici, montimbanchi, norcini, nursini, sono gli stessi che in latino erano chiamati circulatores o agyrtae. Quest’ultimo termine deriverebbe dal greco e significa riunire, raccogliere. Cerretani invece sembra si riferisse agli abitanti di Cerreto in Umbria, paese da cui, per molto tempo, provennero i terapeuti di questo tipo.
    MOLENAER, Jan Miense, Olio su tela, c. 1630

    MOLENAER, Jan Miense, Olio su tela, c. 1630


    Non si deve confondere la figura dell’empirico medievale che quasi sempre era un itinerante non doctus e cioè non formato nelle università o nelle scuole di medicina, con il medico appartenente alla scuola degli empirici, che si fa invece risalire a Serapione d’Alessandria, del secondo-terzo secolo avanti Cristo. Questa scuola era contrapposta a quella dei dogmatici o dei razionali, che riconoscevano come capostipite Ippocrate. La scuola dogmatica anteponeva la ricerca della causa della malattia all’osservazione sia della malattia stessa che degli effetti delle terapie. Gli empirici invece esaltavano l’importanza dell’osservazione e dell’esperienza, disprezzando le speculazioni filosofiche e l’astrazione operata dalle dottrine razionali.

    Data la maggiore importanza ed il maggior potere esercitato a livello sociale dai medici razionali o dotti, il termine empirico divenne, specialmente in letteratura, sinonimo di ignorante praticone e quindi molto spesso venne associato a quello di ciarlatano, anch’esso reso ben presto espressione dispregiativa. Infatti inizialmente il titolo di ciarlatano non era denigratorio, indicava appunto il farmacista-terapeuta girovago che, giunto in una nuova piazza, montati banco e scaffalature, si faceva riconoscere decantando pubblicamente le proprie capacità.

    Karel Dujardin (1622-1678), Ciarlatano in paesaggio italiano, olio su tela - Museo del Louvre

    Karel Dujardin (1622-1678), Ciarlatano in paesaggio italiano, olio su tela - Museo del Louvre


    Anche se abitualmente la figura del ciarlatano è associata a quella dei medici itineranti e non a quella dei farmacisti, questi personaggi erano soprattutto raccoglitori di erbe e serpenti , preparatori e venditori di elettuari, di pozioni, di unguenti, di elisir, di antidoti, pertanto devono considerarsi molto più vicini ai secondi che ai primi.
    Essi dovevano la loro preparazione professionale a conoscenze tramandate in famiglia, ampliate ed accresciute sul campo, nel corso della loro attività osservando il lavoro di altri apotecari, empirici o terapeuti.
    Cries of London, 1688 ristampa c. 1750

    Cries of London, 1688 ristampa c. 1750

    A volte avventurieri, a volte personaggi dalla morale non proprio integerrima, li troviamo al seguito di eserciti o di bande armate, o imbarcati sulle navi, dove esercitavano, come attività aggiuntiva, quella di guaritori o ciurmatori. In un processo per stregoneria, nel 1591, nella Repubblica di Venezia, ne ritroviamo uno, un certo Pasqualino Vio, marinaio, che confessa di essere esperto nel segnare le ferite e le febbri e di aver segnato in mare i compagni di viaggio.

    La specialità più singolare dei cerretani era l’impiego dei veleni animali a scopo terapeutico. Molti di essi sapevano quindi catturare i serpenti velenosi, estrarre loro il veleno, manipolarlo e somministrarlo ai malati evitando di produrre effetti dannosi. Altre specialità molto in voga, erano pozioni e elisir ricostituenti che, in una realtà di sottoalimentazione e di pesanti condizioni di vita e di lavoro, potevano rivelarsi preziosi.

    Già nella Grecia antica, dove erano distinti ed ufficialmente riconosciuti medici sacerdoti, ad esempio gli asclepiadi, e medici laici, esisteva un buon numero di terapeuti itineranti che sembra fossero tra l’altro buoni conoscitori della magia e delle arti magico-terapeutiche.

    Copia a china da Rembrandt, 1831

    Copia a china da Rembrandt, 1831

    Platone riporta che Socrate chiese a Carmide di liberarlo da una cefalea con una certa erba e con alcune parole magiche che sembra quest’ultimo avesse imparato da un medico tracio, evidentemente un itinerante. Gli agyrtse invece, il cui arrivo era sempre atteso da numerosi malati, conosciuti come sacerdoti del culto di Cibele e di Iside, conoscevano le formule magiche ed erano famosi sia per saper curare le malattie e restituire la fecondità alle donne sterili, sia per attirare la pioggia o far tornare il sereno. Sembra non chiedessero compensi fissi ma offerte libere in cambio dei consigli e delle prescrizioni fornite ai gruppi di persone che si raccoglievano loro intorno.
    Alcuni di questi ciarlatani greci lasciarono libri di medicina ora perduti, che non si sa se siano stati scritti da loro stessi o da altri su loro indicazione. I loro libri furono utilizzati in seguito per trarne indicazioni di medicina e quindi possiamo supporre che fossero ritenuti utili ed attendibili.

    Nell’antica Roma vi era una grande affluenza di terapeuti itineranti. Molti di essi per convincere la gente dell’efficacia dei loro antidoti portavano con sé serpenti velenosi dai quali si facevano mordere per mostrare l’efficacia delle proprie pozioni oppure per dimostrare di essere immuni dal veleno, tale uso si conservò per tutto il Medioevo ed oltre. A Roma tra i ciarlatani erano particolarmente rinomati i Caldei ed i Babilonesi che applicavano l’astrologia alla medicina. Questi erano soprattutto famosi per la cura della gotta, che sembra usassero curare in un modo particolare, ricoprendo le parti malate con una pelle di leone scorticato di recente.

    Con l’avvento del cristianesimo gli imperatori presero ad avversare i ciarlatani, i matematici (nome col quale si designavano allora gli astrologi) e gli esperti di magia. Lo storico Ammiano Marcellino, ci riporta che Valente fece condannare a morte come maga una donna che si diceva conoscesse il metodo segreto di curare le febbri intermittenti tramite il canto.
    A partire dal Mille molti ciarlatani vennero in contatto con le pratiche alchemiche e spagiriche tramandate nella cultura mediorientale, così ebbero modo di venire a conoscenza dell’impiego terapeutico di composti chimici e spagirici, di cui è testimonianza l’uso del vetro di antimonio (ossisolfuro di antimonio) come vomitivo nei casi di avvelenamento. E poiché le leggi cittadine vietavano agli speziali di vendere prodotti medicinali che non fossero prescritti da medici iscritti alla corporazione, dobbiamo presumere che i ciarlatani fossero in grado di preparare da soli questi composti.

    Ma l’attività farmaceutica principale o meglio specifica dei cerretani era la preparazione e la somministrazione degli elettuari composti o lattovari, che corrispondevano a quei tipi di medicamenti che i greci avevano chiamato per lo più antidoti. Appartenevano a questa categoria la teriaca e l’orvietano, medicamenti famosissimi in tutta Europa. I ciarlatani vendevano o facevano vendere da montimbanchi questi elettuari su licenza frequentemente concessa dalle autorità.

    Le Marchand d'Orvietan de campagne, stampa del XIX sec.

    Le Marchand d'Orvietan de campagne, stampa del XIX sec.

    L’orvietano era una specialità medicinale non contemplata nelle farmacopee ufficiali, la sua composizione era segreta, ed al pari della teriaca era composto da un gran numero di sostanze.
    Questo prodotto comparve sul mercato intorno al diciassettesimo secolo e non si conosce il suo inventore, anche se molte sono le ipotesi.
    Alcuni hanno fatto risalire l’invenzione ad un certo Cristoforo Contugi ciarlatano che si faceva chiamare appunto l’Orvietano e che mise in vendita l’elettuario a Parigi. Altri, come ad esempio il Corsini, hanno riportato il caso di Girolamo di Ferrante, detto anch’esso l’Orvietano, che nel maggio 1609 aveva indirizzato una supplica ai Signori Otto di Balia della città di Firenze per poter avere il privilegio di montare in banco con la sua compagnia e vendere personalmente o tramite un certo Jacopo di Giuseppe Talavino, detto il Tedeschino, per tutti gli stati del Serenissimo Granduca, il suo segreto contro i veleni.
    La supplica fu accolta favorevolmente e la concessione fu regolarmente iscritta nel libro delle matricole e delle licenze rilasciate dal Collegio Medico. Resta da vedere se quello stesso segreto contro i veleni fosse o divenisse l’Orvietano che fu poi venduto su tutte le piazze da un gran numero di cerretani fino ai primi decenni del 1800.
    Bernardino Mei, Il Ciarlatano (1656).

    Bernardino Mei, Il Ciarlatano (1656). La tela mostra un vecchio ciarlatano seduto su un banchetto in Piazza del Campo a Siena . Ai suoi piedi gli strumenti del suo lavoro: fiale, rimedi, brocche e un volantino pubblicitario riguardante "L'Olio dei Filosofi". Singolare la cintura in stoffa che ricorda le fattezze di un serpente.

    A partire dal 1600 i ciarlatani presero a pubblicizzare i loro composti medicinali con volantini stampati che precedevano o accompagnavano il loro arrivo nelle città e nei paesi. Nei volantini, che in seguito divennero anche manifesti da affiggere sui muri, erano riportati i privilegi, i brevetti del tempo, concessi dai sovrani o dalle autorità statali, insieme alle approvazioni dei Collegi dei medici o dei protomedici. Le approvazioni dei Collegi erano il nulla osta obbligatorio per poter vendere il preparato. Per poter ottenere il nulla osta dei Collegi, i ciarlatani dovevano comunicare la composizione dei preparati e dovevano sottoporli all’esame dei rappresentanti del Collegio fornendo credenziali e referenze sulla loro efficacia ed assaggiandoli essi stessi per provarne l’innocuità. Infine dovevano pagare una tassa al Collegio.

    Questa situazione ci pone di fronte due paradossi.

    Il primo è che, soprattutto nel Medioevo, le preparazioni dei ciarlatani erano considerate più sicure di quelle delle spezierie ufficiali prescritte dai dottori medici, se non altro per la loro assenza di tossicità in quanto provati pubblicamente, mentre le prescrizioni mediche erano di fatto assolutamente arbitrarie, spesso estrapolate da testi antichi, senza alcuna verifica su efficacia o innocuità e il cui allestimento dipendeva direttamente dalle allora non controllabili doti di capacità ed onestà dello speziale.

    Il secondo è che i medici, mentre controllavano strettamente l’operato dei ciarlatani, ricavandone tra l’altro evidenti vantaggi economici, erano poi i principali denigratori del loro operato. Difatti, si ha notizia di “Medici dotti” che ricorsero alla figura del “montimbanco” per distribuire i propri preparati medicinali al di fuori del circuito degli speziali ufficiali. Sembra essere questo il caso per il quale Lodovico Ariosto scrisse L’erbolato che sarebbe stato poi recitato dai saltimbanchi che univano all’attività teatrale, quella di venditori di rimedi farmaceutici.

    Assai spesso erano i governi ad acquistare dai ciarlatani le formule dei preparati. L’acquisto di una formula di teriaca da parte della Repubblica di Venezia è il caso più famoso ed eclatante. La produzione della teriaca veneziana contribuì non poco alla ricchezza di Venezia. Riporta il Castiglioni, storico della medicina, che il parlamento inglese approvò l’acquisto di un rimedio contro il mal della pietra, da parte del governo presso Giovanna Stevens, ciarlatana, che l’aveva messo a punto e ne manteneva il segreto. Questa situazione ci indurrebbe a pensare che i ciarlatani dovessero la loro pur non facile esistenza ad una effettiva capacità terapeutica.

    Il callista cieco, incisione di F. Villamena (1522-1624). Il serpente raffigurato in basso a sinistra è distintivo dei cerretani.

    Il callista cieco, incisione di F. Villamena (1522-1624). Il serpente raffigurato in basso a sinistra è distintivo dei cerretani.

    Un componente fondamentale dei lattovari e degli antidoti in genere era, come per la teriaca, la carne dei serpenti velenosi, che, per servire allo scopo, dovevano prima essere catturati. I migliori e più rinomati cacciatori di serpenti velenosi erano i Marsi, un’antica popolazione abitante una zona montuosa vicino al lago del Fucino.
    Molti cerretani si proclamavano discendenti dei Marsi, abitanti della Marsica, come quei cacciatori di serpenti che fino a qualche decennio fa si vedevano girare per le città dell’Italia meridionale con scatole piene di serpenti dal cui veleno si dicevano immuni.

    Ora non si pensi che questo utilizzo del veleno di vipera fosse esclusivo di questi terapeuti popolari girovaghi. Fino all’inizio dell’Ottocento era la norma trovare, in vendita nelle farmacie ufficiali, oltre alle consuete mignatte, le vipere vive.

    Oltre a antidoti, ricostituenti e elettuari i ciarlatani distribuivano, come ci racconta un medico avverso:
    polveri per uccidere vermi, misture per il mal di milza e padrone, che così nominano il dolor colico o altro grave dolore che infesti gli huomini, olii per guarir doglie vecchie e sordità antiche, liguori polveri o radici per levar dolor de’ denti, unguento da rogna, pomata per guarir le setole e buganze (per buganze o perniore si intendevano le fessurazioni della pelle delle mani e dei piedi causate dal freddo)

    Un contemporaneo, che, senza operare distinzioni, è critico nei confronti dei ciarlatani , ci racconta il metodo utilizzato dai montimbanchi:

    Dou Gerard, Il Ciarlatano - 1652

    Dou Gerard, Il Ciarlatano - 1652

    Comparisce alle volte in una Città una Compagnia di questi Galant’huomini: conducono seco Donne bene all’ordine, e della lor professione; perché senza Donne stimano di dar in nulla, et essere giudicati Comedianti degni di poco plauso: spargono voce di voler servire al pubblico, vendendo eccellenti segreti, e facendo belle Comedie; e tutte, per dar spasso, e piacere, e senza pagamento: eleggono luogo nella publica piazza: ove composto un palco, vi salgono à fare prima il Ciarlatano, e poi il Comediante. Ogni giorno a hora comoda comparisce in quella scena bancaria un Zanni (Arlecchino), ò altro di simil fatta; e comincia, ò sonando, ò cantando ad allettar il Popolo al circolo, et all’udienza: poco dopo si fa vedere un’altro, e poi un’altro, et anche spesso una Donna: e quivi tutti insieme con zannate (arlecchinate), ò con altro fanno un miscuglio di popolari allettamenti: quando ecco viene il principale, che è lo Spacciatore del secreto, e l’Archiciarlatano: e con buona maniera s’introduce alla lode grande, et incomparabile del suo maraviglioso medicamento; di cui fattosi buono spaccio, e radunati i soldi, si termina quella vendita principale; dopo cui un altro Ciarlatano comincia la sua, se prima non l’ha fatta; e poi anche la Signora spaccia i suoi moscardini, ò qualche altra gentilezza: alla fine si avvisa al popolo così :
    Horsù la Comedia si comincia, la Comedia, e serrate le scatole, e levati i bauli; il banco si cangia in scena, ogni Ciarlatano in Comediante; e si da principio ad un dramatico recitamento, che all’uso comico trattiene per lo spatio di circa due hore il Popolo con festa, con riso, e con solazzo.

    Se queste esibizioni erano state studiate per imbonire gli appartenenti ai ceti più bassi, i ciarlatani ebbero modo di farsi propaganda presso le corti di tutta Europa, più preoccupate ad assaporare i frutti aurei del giardino delle Esperidi che della salute dei loro sudditi, con spettacoli e rappresentazioni “ad hoc”. Esemplificative sono le prove di Trasmutatione de’ Metalli in voga tra Seicento e Settecento come quelle compiute sotto l’egida di Cristina di Svezia a Palazzo Farnese, quelle promosse da Federico II oppure, in tempi più recenti, quelle di Giuseppe Balsamo, Conte di Cagliostro. Naturalmente nessuno si dava la pena di controllare la presenza di una doppia intercapedine nei crogioli o di altri espedienti, pena il diniego del “Filosofo” operatore.

    Questi spettacoli a volte erano realmente attraenti ed anch’essi possono essere stati molto famosi come alcuni medicamenti dei cerretani. Così come divenne celebre l’elettuario Orvietano, usato per un gran numero di malattie, acquistò fama Tabarin, il capocomico del ciarlatano francese Moudor, il cui nome tra l’altro, tradotto secondo la cabala fonetica, è di per sé tutto un programma: montagna d’oro.
    Tabarin, che teneva spettacolo a Parigi al Pont Neuf, divenne tanto famoso da dare il nome ai locali notturni della Parigi della Belle Epoque.
    Il Pont Neuf ha visto molto nei secoli scorsi ed anche di abbastanza inquietante in tema di ciarlataneria; è il caso del microscopio con il quale il ciarlatano Boyle nel 1727 vendeva il suo specifico. Il microscopio era stato inventato da poco e quello di Boyle si diceva fosse truccato con grande abilità per mostrare ciò che il ciarlatano voleva.
    La storia è riportata da un medico, Astruc, che ritenne di aver scoperto il trucco, peraltro descritto come ingegnoso, ma non si sa se dare più fiducia a Boyle o ad Astruc.
    Dunque il ciarlatano mostrava al microscopio come nel sangue delle persone, malate di certe malattie, vi fossero degli animaletti strani, invisibili ad occhio nudo. Sempre al microscopio mostrava che, posta una goccia del suo elettuario insieme al sangue, si manifestavano degli altri animaletti voracissimi che mangiavano i primi. Era questa, egli diceva, la prova dell’efficacia profonda di un vero medicamento. Astruc nel suo libro dimostra, con una dettagliata spiegazione, che il microscopio è in realtà un attrezzo ben truccato. Ma questo non chiarisce le cose: fu infatti veramente la fantasia o l’ingegno della necessità che fece inventare un mondo microbico o furono conoscenze precedenti di altro tipo? E fu sempre la pura fantasia a far giocare con il concetto di antibiotico, a quel tempo ancora ben al di là da venire?
    Come diceva il Pazzini:

    se egli avesse venduto penicillina, streptomicina o qualunque altro simile rimedio, si sarebbe espresso, presso a poco, nello stesso modo.

    Il ciarlatano, Ecomuseo del Comune di Cerreto di Spoleto

    Forse varrebbe la pena di indagare meglio con spirito privo di pregiudizi.
    I medici accademici, una volta ottenuto il riconoscimento della propria attività quale arte liberale, presero naturalmente a difenderla contro qualunque tipo di concorrenza diretta o indiretta e iniziarono la lotta incessante e mai conclusa contro il cosiddetto esercizio abusivo. Riportiamo qui alcune righe di Andrea Corsini del suo Medici Ciarlatani e Ciarlatani Medici:
    Esercizio abusivo che, se è necessario per stabilire la distinzione fra ciarlatano medico e medico ciarlatano, non è da solo un equivalente del ciarlatanismo. Un acconciatore di ossa, il quale modestamente, per pratica acquisita, rimetta a posto un’articolazione lussata, se esercita abusivamente non è però un ciarlatano,- mentre è ciarlatano anche un medico che promette guarigioni impossibili, o si comporta non seriamente di fronte ai propri clienti ed al pubblico. Abbiamo infatti veduto ai tempi nostri, per varie ragioni, diminuire l’esercizio abusivo, mentre dobbiamo constatare che la ciarlataneria è rimasta la stessa,- ciò perché ai vecchi praticanti ed ai ciarlatani medici si sono andati sostituendo molti…. medici ciarlatani!

    Indubbiamente l’attività del ciarlatano era pericolosa anche per lo speziale ufficiale per due motivi: da una parte perché la figura del ciarlatano imbroglione faceva perdere credibilità alla categoria, dall’altra perché ciarlatani seri e capaci di ottenere risultati terapeutici evidenti potevano rappresentare concorrenza dannosa e paragoni a tutto svantaggio della figura del apotecario abilitato.
    Che il pericolo fosse reale lo si può chiaramente verificare in molti atti, come nel bando lucchese del quattordicesimo secolo, riportato dallo storico della medicina Viviani, con il quale dei cerusici chiamavano presso il loro albergo i clienti per dare consultazioni:

    3 giugno 1346. Bandisce e notifica da parte di Maestro Francesco et di Maestro Bonagratia delli Scolli da Parma, maestri cerusici: A ciascuna persona di qualunque condizione sia, la quale fosse infermo o difettuoso d’esser rotto, crepato, o di male di pietra e si voglia fare curare delle dette infermità o malatie, o di qualunque altra malaria, la quale curare si potesse per l’arte della cerusia, comparisca domani da loro allo albergo di Ugolino da Beverino posto in porta San Donati: sapendo che detti Maestri intendono curare ciascheduno che a loro andrà, delle dette infermità et malatie, alle loro proprie spese senza alcun pagamento ricevere, fino a tanto che non sono liberati et guariti. Attenendo i patti tra loro promessi e fatti; et al ricco per denari secondo la sua infermitade et facultà et al povero per gratia et per l’amore di Dio.

    A questi bandi si sovrapponevano le grida dei magistrati di sanità che avevano il compito tra gli altri di impedire l’abuso delle professioni medica e farmaceutica. A tale proposito una grida dello Stato di Milano del 1511 dice:

    (…) per la presente si fa pubblica grida e comandamento che non sia fisico, cerusico né sia altra sorta di persona qualsivoglia, che presuma medicare né implicarsi in medicare persone di qualunque sorte si sia, se non siano collegiati dal Venerando Collegio di fisici di Milano, salvo con buona licenza dell’ufficio della sanità (…) et chi accuserà tali contraffacienti, avrà la quarta parte della condanna e sarà tenuto segreto.

    Ma le minacce, evidentemente, non erano sufficienti ad arginare un fenomeno connaturato con la realtà del tempo, se più di centocinquanta anni dopo un’altra ordinanza del Protofisico Generale Honorato Castiglione prescrive l’obbligo per i medici di presentare ai signori Luogotenenti la licenza da lui rilasciata e proibisce, qualora ne fossero sprovvisti

    (…) a verun: cerettano, circonforaneo, montimbanco, cavadenti o altra persona di qualsiasi stato, grado e condizione il fabbricare, vendere né far vendere pubblicamente né privatamente sorte alcuna de’ medicamenti semplici o composti per uso esteriore né interiore. Proibisce inoltre a detti cerretani il prender per bocca veleni di sorte veruna, né tagliarsi, né scottarsi, né farsi morsicare de vipere né parte alcuna del corpo, acciò da tali esperienze non resti maggiormente ingannato il volgo.

    Incisione tratta da "Le chirurgie françoise recueillie des antiens médecins et chirurgien. Avec plusieurs figures des instrumens necesseres pour l’opération manuelle", Paris, 1594

    Ma l’ambito d’azione dei ciarlatani non si fermava alle sole pratiche connesse all’allestimento e alla vendita dei farmaci anche se questa caratterizzazione corrispondeva alla parte preponderante del loro operato.
    Durante il Medioevo, i medici (magistri, fisici, medici fisici e soprattutto dottori in medicina) erano considerati accademici, parlavano e scrivevano in latino, avevano cattedre universitarie e prestavano servizio alle corti dei papi e dei principi. I chirurgi empirici, magistri in chirurgia, di solito non conoscevano che il volgare, molto raramente il latino, erano spesso itineranti ed erano addestrati di padre in figlio ad eseguire atti operatori talvolta tenuti segreti. Si recavano da un paese all’altro, praticavano la pericolosissima operazione della calcolosi vescicale, che allora si chiamava mal della pietra, operavano ernia, cataratta e talvolta si cimentavano anche in operazioni più gravi e difficili, non solo ad esito infausto (che erano aimè la maggioranza) ma anche risolutive, cosa che dimostra un alto grado di perizia e … di coraggio.
    Riporta in proposito lo storico Sprengel:

    Al principio del secolo quattordicesimo i chirurghi si astenevano dalle operazioni più rilevanti, occupandosi di queste i cerretani; e il De Vigo e Giambattista Selvatico italiani, benché chirurghi, affidavano la trapanazione, l’estrazione della cateratta od altro ai barbieri e ciarlatani fra i quali era celebre da un secolo e più, una famiglia di Milano detta dei Norsini, per destrezza e perizia litotomica. Verso la metà del secolo quindicesimo, uno di loro recossi in Francia ed apprese l’arte da un certo Colot il quale stava attendendo di mettere in pratica il metodo da lui proposto. Ciò avvenne nel 1474 in un franco arderò nativo di Meudon, condannato a morte il quale soffriva sintomi calcolosi. I chirurghi esposero a re Luigi XI che se fosse permessa l’operazione in questo malfattore e riuscisse, gioverebbe per salvare altri da morte. Colot eseguì l’operazione con successo, e salvò il condannato dal calcolo e dal castigo.

    Particolarmente abili nelle operazioni dei calcoli vescicali sembra che fossero i norcini o nursini, in alcuni casi essi prendevano in casa loro il malato ed in dieci giorni lo mandavano via guarito.
    Si deve ad una famiglia di questi chirurghi ciarlatani il primo diffondersi della chirurgia plastica nel periodo moderno. Fu infatti la famiglia Branca, siciliana, ed in seguito la famiglia Vianeo di Tropea, a perfezionare, in un modo che lascia stupiti, la rinoplastica. Essa veniva eseguita con l’innesto di lembi di pelle tratti a distanza o con innesto dei lembi tratti da donatori, esattamente come si fa ancora oggi.

    Jan Victors - Olio su tela -Budapest c. 1650

    Jan Victors - Olio su tela -Budapest c. 1650

    Dalle officine chirurgiche, nelle quali i giovani imparavano l’arte, uscivano medici che non sapevano sostenere le estenuanti disquisizioni scolastiche, ma che erano molto esperti nell’arte chirurgica, che a quel tempo comprendeva il trattamento di tutte le affezioni esterne, o che derivavano da cause esterne, e delle affezioni ben localizzabili. Il chirurgo oltre ad usare il coltello prescriveva correttamente medicamenti e curava le infezioni e le piaghe.

    La disputa tra medici e chirurghi è stata molto profonda per più di quattro secoli, ed è durata fino al 1700. Nel trecento a Parigi lo studente di medicina doveva giurare di non occuparsi di operazioni chirurgiche e perfino il salasso era proibito ai dottori in medicina. Questi ultimi ritenevano indecoroso praticarlo, anche se numerosi medici di quel tempo come Taddeo Alderotti, Pietro d’Abano e Gentile da Foligno, ne trattarono a lungo nei loro scritti, previdero le sue indicazioni in varie malattie e ne descrissero il tempo ed il distretto del corpo dove doveva essere praticato. In seguito furono scritti voluminosi trattati sulle disquisizioni intorno al salasso, al modo di praticarlo, sulla vena da aprire, se dal lato malato o dal lato sano del corpo e così via, ma il dottore in medicina riteneva compiuta la sua opera una volta data l’indicazione; scelta la vena e decisa la quantità di sangue da far uscire, l’operazione veniva eseguita da chirurghi, cerusici o barbieri.

    L'Apotecario di Pietro Longhi, 1752, Venezia, Galleria dell'Accademia. Si noti il cerusico in visita presso la farmacia. Lo speziale sta prendendo nota della prescrizione.

    Questo contrasto tra medici fisici e chirurghi era talmente radicato che si faceva continua opera denigratoria nei confronti di chi operava. Un esempio evidente è quello di Maestro Abramo, il medico mantovano cugino di Abramo Ariè detto Porta Leone vissuto dal 1542 al 1612, eletto medico ducale da Guglielmo Gonzaga. La storia è riportata da Carlo d’Arco e Willelmo Braghirolli in un opuscolo del 29 aprile 1867, nel quale sono pubblicate ventisette lettere inedite di Maestro Abramo e di suoi pazienti a sostegno della tesi della diffamazione. La considerazione degli autori dell’opuscolo, che fosse stata fatta opera denigratoria, nasce da un’affermazione contenuta nella Nuova Enciclopedia Popolare di quel periodo che riporta il caso di Giovanni de’ Medici il quale, ferito ad una gamba, fu curato da Maestro Abramo che provvide all’amputazione della gamba stessa e morì dopo alcuni giorni, riporta l’Enciclopedia, a causa dell’imperizia del chirurgo. Gli autori dell’opuscolo dimostrano ampiamente, sulla base delle lettere, che la morte di Giovanni de’ Medici non poteva assolutamente essere attribuita all’imperizia del chirurgo, ma alle condizioni ed alla condotta del ferito prima e dopo l’operazione chirurgica. Giovanni per di più fu visto dal medico soltanto venti ore dopo essere stato ferito e senza aver ricevuto alcuna medicazione. Anche altri casi, cui alcune lettere si riferiscono, testimoniano la perizia e la competenza del chirurgo.

    Inizialmente i governi non sostennero in modo deciso le rivendicazioni di monopolio della conoscenza e dell’esercizio dell’arte da parte dei dottori in medicina. La medicina popolare e i guaritori garantivano un certo grado di sanità pubblica ed eliminarli avrebbe creato forti tensioni. Non era quindi possibile metterli al bando. Il riconoscimento definitivo della medicina ufficiale, come esclusiva, avvenne e si consolidò dopo il concilio di Trento, con l’attuazione della Controriforma.

    Nel quattordicesimo secolo negli statuti dell’arte dei medici e speziali di Firenze risulta abbastanza chiaro il concetto che l’arte della medicina aveva diverse branche e diverse competenze e tutte concorrevano al mantenimento della sanità pubblica con pari dignità. Nel capitolo XXIII dello Statuto del 1349 intitolato Che tutti e ciascuni esercitanti della detta arte giurino all’arte predetta, et siano sottoposti ai consoli della detta arte, alla lettera dove è detto:

    Et acciò che niuno dubbio possa nascere di quegli che sono medici, spetiali e merciai, dichiariamo che tutti e ciascuni medicanti in fisica o cerusica, e acconcianti ossa, medicanti bocche nella città o contado di Firenze, quandunque avranno medicato con scrittura o senza si trova un’aggiunta datata del dicembre 1374 per mano di Nicolò di Cambione giudice, sottoscritta da Tino di ser Ottaviano notaio del comune, dalla quale risulta come anche tutti e ciascuni barbieri, o arte o vero misterio di barbieri in alcuno modo esercitanti sieno da considerarsi appartenenti all’arte, s’intendino medici e per medici sieno avuti e reputati, e devano giurare et essere sottoposti all’arte predetta e a’ consoli della detta arte.

    Ma la situazione non era affatto chiara. In effetti non essendo state regolamentate in nessun modo le professioni, esisteva un gran numero di figure con mansioni e capacità che spesso si sovrapponevano in tutto o in parte, cosicché non si riesce a distinguere con chiarezza la collocazione esatta di chirurghi, barbieri, cerusici, norcini e il loro rapporto con medici fisici e speziali.

    Risulta ad esempio che verso la fine del trecento, in tutta Europa, i barbieri esercitavano la bassa chirurgia, ma svolgevano in modo più o meno diretto anche atti medici. Essi per legge dovevano subire un determinato controllo da parte dei medici, ma eseguivano fino ad un certo punto le indicazioni di questi ultimi ed operavano con una certa autonomia sia nella bassa chirurgia sia nella medicina. Queste condizioni, in particolare in Italia, si sono mantenute per lungo tempo, tra le tante testimonianze possiamo citare il detto siciliano, raccolto dal Pitrè, secondo il quale il medico doveva esser vecchio, il chirurgo giovane e il farmacista ricco: medicu vecchiu, varveri picciottu e speziali riccu.

    In Sicilia, la bassa chirurgia fu esercitata dai barbieri fino a tempi abbastanza recenti, specialmente nei villaggi. In particolare il salasso era di loro spettanza: ogni varveri sagna (ogni barbiere sanguina) affermava un detto popolare.
    Nel regolamento dell’ospedale civile di Padova dell’anno 1569, si trova il seguente elenco del personale medico e delle sue funzioni:

    Un Dottor Fisico (…) per visitar tutti li poveri infermi della Casa, si homeni che donne.
    Un Dottor di Cirogia (…) per medicar d’onguenti tutti li poveri impiagadi dell’Ospedal.
    Il Barbiero per salassar tanto homeni che donne e far quanto è tenuto un buono e sufficiente Chirurgo.

    Il salasso nell'incipit di un manoscritto del XIII sec

    Il salasso nell'incipit di un manoscritto del XIII sec

    Da questa indicazione sembrerebbe che al chirurgo fosse riservata soltanto la medicazione coll’unguento, mentre invece la pratica della chirurgia spettava al barbiere.
    Nel famoso trattato di chirurgia di Guido da Chauliac si trova tra l’altro un’accurata descrizione della pestilenza scoppiata in Avignone nel 1348. Fra le cure che si consigliavano a quel tempo venivano in prima linea il salasso, i purganti e gli elettuari. I bubboni venivano prima fatti maturare con impiastri di fichi e di pistacchi, poi venivano aperti, svuotati e curati.
    I barbieri nacquero e cominciarono ad avere particolare importanza in Germania verso il dodicesimo secolo, quando a seguito della proibizione di portare la barba, fatta agli ecclesiastici, si generalizzò l’uso di farsi radere. Nello stesso periodo i barbieri cominciarono a praticare il salasso soprattutto nei conventi. I monaci, che dovevano generalmente servirsi del barbiere per la tonsura, ricorrevano ad esso anche per il salasso al quale una legge ecclesiastica li obbligava a sottoporsi regolarmente. Il barbiere si chiamava rasor et minutor poiché salassare si diceva nel latino dell’epoca minuere sanguinem. Regole particolari di alcuni conventi prescrivevano il salasso periodico al quale nessun monaco poteva sottrarsi, a meno che non fosse gravemente ammalato.

    Nel Collegio di San Cosimo a Parigi, organizzato intorno al 1210, si distinguevano nettamente i chirurghi che dovevano vestire con abito lungo dai barbieri o chirurghi con abito corto. In seguito, altri decreti reali proibirono a questi ultimi di esercitare la chirurgia senza aver subito un esame speciale davanti a quattro giudici giurati. In Inghilterra i barbieri di Londra si costituirono in un collegio particolare, con diritti garantiti e riconosciuti con un decreto di Edoardo IV del 1462.
    Nel 1365 a Parigi si contavano quaranta barbieri chirurghi. Gli statuti della Communauté des Barbiers datano 1361 e sono confermati da un’ordinanza del 1383, secondo la quale II primo Barbiere e Valletto di camera del Re é Guardia del Mestiere dei Barbieri della città di Parigi ed inoltre Capo di tutta la Barberia e Chirurgia del reame.

    L’antichissima pratica terapeutica di provocare la fuoriuscita di alcune gocce di sangue da determinati punti del corpo era diventata salasso di quantità significative e talvolta notevoli di sangue, e come tale era diventata una branca della medicina ufficiale destinata a raggiungere eccessi deprecabili, tanto da far dire che nel diciottesimo secolo i medici avevano provocato più versamento di sangue di quanto ne fosse stato fatto in guerra.

    Cintio d'Amato. Nuoua et vtilissima prattica di tutto quello ch’al diligente barbiero s’appartiene. (Naples: G. Fasulo, 1671).

    Cintio d'Amato. Nuova et utilissima prattica di tutto quello ch’al diligente barbiero s’appartiene. Napoli: G. Fasulo, 1671. Notare il medico che indica al barbiere il punto corretto dell'esecuzione.

    Durante le epidemie i ciarlatani, più di altri, spesso recitando in versi, davano consigli per prevenire il contagio e vendevano pozioni e preparati soprattutto nei paesi del contado, dove non arrivavano i banditori inviati dalle autorità cittadine. Malgrado ciò, e come ulteriore conseguenza della posizione ambivalente in cui si trovavano, ai ciarlatani, in certi periodi del contagio, era vietato circolare liberamente da una città all’altra per paura che fossero essi stessi veicolo di diffusione della malattia.
    I consigli dei ciarlatani non si discostavano affatto da quanto di meglio potevano dire i medici, che spesso invece, si facevano portavoce di interessi di parte. Erano medici ufficiali ed accademici quelli che avevano individuato la causa delle pestilenze nella volontà degli ebrei di avvelenare il mondo e perciò, come racconta Guido da Chauliac nel trattato De Chirurgia: moltissimi ne furono uccisi. Non può essere ritenuto un caso il fatto che Guido scrivesse questo mentre si trovava ad Avignone come medico di Urbano V. Ma da questo punto di vista é significativo anche il divieto delle conversationes politicae propugnato da Pietro da Tossignano, famoso maestro dottore in medicina a Padova.
    Dei versi di cantori popolari di quel tempo sulle misure da osservare per contrastare il contagio ci resta un sermintese pubblicato da Salomone Morpurgo nel testo La pestilenza del 1348, rime antiche:

    Malinconia, fatica o accidente
    che ti affannasse, sia da te partita,
    sobriamente conduci la tua vita
    con vivande pulite e vin mordente.
    E più non dimorar fra moltitudine,
    con cibi cordiali il gusto accenna,
    il fuoco usando con buona attitudine.
    Così Galeno Ippocrate e Avicenna
    e molti altri dottor con prontitudine
    ne disson con la lingua e con la penna.
    Nel tempo corruttivo e pistolente
    vero rimedio della nostra vita
    l’anima ben disposta con Dio unita,
    purgando il corpo ragionevolmente.
    La regola c’insegna,
    che per conclusion sommaria in tutto
    tengasi il becco in molle e ‘l pinco asciutto.

    Sono anni in cui, nei consigli di apotecari e medici, spesso si ritrovano evidenti considerazioni popolari derivate dall’osservazione. E’ il caso del Consiglio contro la peste di Nicolò de Burgo, cittadino fiorentino e dottore in medicina, conservato nella biblioteca dell’Università di Bologna, che oltre alle consuete prescrizioni, riporta un’osservazione originale:

    …è considerato un buon segno prognostico quando i colombi nidificano nella casa ove abita il malato, vuol dire che la fase acuta della malattia è passata e il malato non è più in pericolo di morte… raccomandando nel contempo di asportarne gli escrementi.

    In conclusione ci si troverebbe in errore se si disconoscesse l’importanza di questi personaggi, considerati fino a tempi recenti di nessuno o scarso rilievo nell’indagine storica delle arti sanitarie. E fa riflettere scoprire oggidì, specialmente nelle contrade più povere del pianeta, l’esistenza di persone che continuano a praticare l’antico mestiere di farmacista-terapeuta itinerante con gli stessi gesti e espressioni che ritroviamo nelle antiche raffigurazioni barocche, circondate da uomini e donne che preferiscono le loro cure alle nostre medicine perchè scadute, avariate o pericolose.

    In una lettera di Cyrano de Bergerac (1619-1655), il lamento di un sofferente:

    Signore,
    Poi che son condannato (ma essendo condanna del medico, vi produrrò contro appello più facilmente che se si trattasse di affare con la giustizia) voi desiderate che io faccia come gli assassini, quando dal patibolo concionano il popolo, e predichi alla gioventù scapigliata mentre sono fra le mani del carnefice. – La febbre ed il farmacista mi tengono il pugnale alla gola, con tanta assiduità, che, certo non permetteranno che io vi annoi molto con le mie chiacchiere.
    Il mio medico non fa altro che rassicurarmi e dirmi che è cosa da nulla, ma, frattanto, agli altri dice piano che solo un miracolo potrà salvarmi. – Cosa questa che mi dà poco pensiero, perché so bene che tale gente, a causa del suo mestiere, è costretta a dare per spacciato ogni ammalato, per potersi poi vantare, se qualcuno se ne salva, che è opera loro.
    Ma sentite un po’ fin dove arriva la sfrontatezza del mio carnefice; peggio mi sento, più mi lamento, e più se ne rallegra, e non fa altro che regalarmi di sonori: Meglio ! meglio così!
    Gli racconto di essere stato colto da un accesso di profondo sonno, e mi dice che è buon segno; mi vede stretto dalle spire di un accesso di sangue, e se ne rallegra come se fossi sotto l’azione di un salasso ben riuscito.
    Mi sento tutto gelare, e lui assicura che lo prevedeva, che proprio per spegnere il gran fuoco che mi ardeva, mi ha dato non so quali rimedi…
    Perfino quando son là là per morire e non posso più parlare, e i miei piangono affranti, sento che quello sbraita: Sciocchi! è la febbre che sta per spirare!
    Ecco in mano di quale carnefice son caduto!
    Intanto, stando bene, sto per andarmene all’altro mondo.
    Torto da parte mia ce ne è, ed è quello di aver chiamato al mio capezzale uno di tali nemici, ma potevo mai prevedere che coloro che fan professione di guarire gli umani, s’adoperassero invece così bene a farli morire? Questa è la prima volta che son caduto nella trappola, che se già una Volla vi fossi stato preso, non potrei, ora, più lagnarmene!
    Solo al sognare un medico io credo si debba avere la febbre. Quelle loro cavalcature pelle e ossa, ingualdrappate di nero, sotto i loro cavalieri rigidi tutti un pezzo, sembrano tante bare con la Morte a cavalcioni. Sarà certo per questo, che la legge ha imposto loro di cavalcare solamente muli. Questa genìa è tanto scrupolosa nell’applicare le sue regole, che le fa persino osservare alle sue bestie, con tanti e tali digiuni, da ridurle quasi tisiche. Odiano tanto il calore, che appena sentono in un ammalato qualche cosa di caldo, prendono quel povero corpo per un vulcano in attività, ed ecco che cominciano, a forza di salassi e di clisteri, e di decotti di foglia di senna, di cassia, a impoverire l’organismo per indebolire, come dicono, quel fuoco che arde finché trova di che ardere.
    Che ve ne pare?
    In fin dei conti, possiamo lamentarci se esigono dieci pistole per soli dieci giorni di malattia? Fate un po’ il paragone fra quello che si fa agli ammalati, e quello che si fa al delinquente. Il medico osserva le orine, interroga il paziente sulle sue funzioni corporali, e dà la condanna; il chirurgo lo fascia, ed il farmacista gli spara il suo colpo a tradimento dietro le spalle.
    Appena i tre sporgono la testa in camera, si caccia la lingua al medico, si porge il deretano al farmacista, e si tende il polso al cerusico. Ed osservate un po’ se tutte le cose funeste non vanno di tre in tre: nell’inferno si vedono tre fiumi, tre cani, tre giudici, tre Parche, tre beati, tre Furie; i flagelli che Iddio manda ai poveri mortali vanno di tre in tre: peste, guerra, fame; mondo, carne, diavolo; fulmine, tuono, lampo; medico, farmacista, cerusico. E tre specie di uomini sono sulla terra fatte a bella posta per tormentare l’umanità: l’avvocato per la tasca, il medico per il corpo, il prete per l’anima.
    Ed hanno perfino il coraggio di vantarsene!

    Simon Dittrich - Der Königliche Apotheker, acquaforte in 100 esemplari, 1983


    Sentite: un giorno che il medico entrava nella mia camera gli chiesi ex abrupto:
    Quanti?
    Quello sfacciato assassino, intuendo subito che gli chiedevo degli assassinii commessi, carezzandosi la barba mi rispose:
    Tanti! e non me ne vergogno!
    Concludiamo: i medici ci mandano la Morte ora con un granello di mandragora, ora nella cannula di una siringa, ora sulla punta di un bisturi, ed hanno l’abitudine di racchiudere il loro veleno in parole tanto melate, che quasi credetti il mio mi volesse annunziare la più alta onorificenza da parte del Re, quando mi annunziò che stava per procurarmi un benefizio corporale.
    Troppo gravi sono però i delitti di questi Messeri per punirli solamente con barzellette! Bisognerebte affidarli alla giustizia in nome dei morti! Non troverebbero un difensore in tutta la cristianità, e non vi sarebbe giudice che non ne convincesse qualcuno di aver ammazzato perfino suo padre, e fra tutti i poveretti spediti da essi al camposanto, non ve ne sarebbe uno che non mostrerebbe i denti!
    Quando muore uno di cotali Messeri, si piange solo perché è vissuto troppo a lungo.
    Ma, mio Dio! È là il mio ottimo angelo custode che si avvicina! Si! lo riconosco dai paludamenti! vade retro Satana! Datemi dell’acqua santa! È un diavolo eretico: non ha paura dell’acqua benedetta! Avessi almeno tanta forza da fracassargli il grugno. Verrà certo a propinarmi qualche altra delle sue tisane, così che io a forza di ingollare consommés, son quasi consumato anche io!
    Accorrete presto, Signore, venite in mio aiuto, se non volete che se ne vada all’altro mondo.
    Il vostro fedele servitore.

    (Contro medici, farmacisti e cerusici in Lettere d’amore di Cirano de Bergerac, traduzione di Francesco Stocchetti, Società anonima Arti Grafiche Monza, 1923)

    Breve bibliografia per approfondire

    Abgrall Jean-Marie: I ciarlatani della salute, 1999, Editori Riuniti
    Atti del II Congresso Nazionale della Accademia Italiana di Medicina Omeopatica, in: Rassegna di Medicina Omeopatica, Roma, 20-23 Settembre 1962, Roma, 1962
    Atti del XVIII Congresso Italiano di Storia della Medicina, Sanremo, 1962
    Atti del XXI Congresso Nazionale di Storia della Medicina, Perugia, 1965
    Atti del XXI Congresso Internazionale di Storia della Medicina, Siena, 1968
    Atti del XXX Congresso Nazionale di Storia della Medicina, Martinafranca, 1981
    Barbalucca G.: Nascita e morte dell’Eziologia, in: Atti del XXX congr. Naz. di St. della Med., Martinafranca 1981
    Becciani U. G.: Ancora sui Ciarlatani. – Il Papyrus Miniedizoni. PT, 2006
    Becciani U. G.: Ciarlatani nei secoli. – Il Papyrus Miniedizioni. PT, 2005
    Chaumartin H.: L’ours M. Fleurant et les charlatans, in: Revue d’hist. de lapharm.,n. 189 1966 pp. 121-127
    Chiappelli A.: Primordi della pubblicità medica in Italia. – Bollettino dell’Istituto Storico Italiano dell’Arte Sanitaria. Roma, 1935.
    Colapinto Leonardo, Annetta Antonino: Ciarlatani, mammane, medici, ebrei e speziali conventuali nella Roma barocca, 2002, Aboca Edizioni
    Corsini A.: Medici ciarlatani e ciarlatani medici. – Zanichelli. BO, 1922.
    Cosmacini Giorgio: Ciarlataneria e medicina. Cure, maschere, ciarle, 1998, Cortina Raffaello
    Cosmacini Giorgio: Il medico ciarlatano. Vita inimitabile di un europeo del Seicento, 2001, Laterza
    Gentilcore David: Malattia e guarigione. Ciarlatani, guaritori e seri professionisti. La storia della medicina come non l’avete mai letta di , 2008, Controluce (Nardò)
    Latronico N.: Leonardo Fioravanti bolognese era un ciarlatano/’, Castalia, n. 2, 1965
    Latronico N.: Medici, maghi e ciarlatani, Castalia, anno XIX, n. 2, 1963
    Pazzini A.: Il ciarlatano di Pont Neuf, in:Fed. Medica n. 6, 1954
    Pensieri e precetti di Augusto Munì. I ciarlatani e la medicina, in: Lezioni cliniche, Castalia, n. 1,1957
    Raitano A.: Archeologia dei medicamenti. – Ind. gr. Labanti e Nanni. BO, 1995
    Reizzi G.: Gli specifici segreti dei cavadenti del ‘700 a Venezia, Venezia, estr. Ateneo Veneto, 1949
    Rossini L.: La medicina e la società. Il medico istruito, il ciarlatano e l’omeopatia, Livorno, 1957
    Ungarelli G.: Medicastri e ciarlatani nei secoli del Rinascimento in Italia. Gamberini e Parmigiani. BO, 1891.

    INVITO AL CONVEGNO DI TRENTO (7 – 9 Giugno ) per tutti i soci dell’Accademia

    Posted By on 20 marzo 2013

    Trento - Fontana del Nettuno e Chiesa dell'Annunziata

    Trento - Fontana del Nettuno e Chiesa dell'Annunziata

    A tutti i Soci dell’Accademia di Storia della Farmacia

    L’importanza di questo appuntamento è duplice. Oltre ad incontrarci, spero in un buon numero, per far conoscere l’Accademia nelle province alto-atesine dove la farmacia conserva molte delle sue tradizioni, avremo qui il nostro triennale compito di eleggere il Consiglio di Reggenza.

    Trento - Palazzo Gerloni, erroneamente indicato come casa natale di Cesare Battisti, in una cartolina degli anni '30. Oggi l'edificio, che fu sede di una delle più antiche farmacie di Trento, versa in uno stato di deprecabile abbandono.

    Trento - Palazzo Gerloni, erroneamente indicato come casa natale di Cesare Battisti, in una cartolina degli anni '30. Oggi l'edificio, che fu sede di una delle più antiche farmacie di Trento, versa in uno stato di deprecabile abbandono.

    E’ perciò indispensabile che i Soci si ricordino di versare al più presto la quota per il 2013, secondo le modalità contenute nell’ultimo numero di Atti e Memorie dello scorso anno. Per ulteriori informazioni telefonare alla Segreteria, alla Tesoreria o alla Presidenza.
    Poichè abbiamo notizia che diversi studiosi intendono presentare al Convegno una relazione (anche a tema libero), li preghiamo di volerci comunicare al più presto il titolo del loro intervento, essendo nostro desiderio comunicarlo sul primo numero della rivista in uscita a Maggio.
    Potrà essere un motivo di interesse per incrementare il numero dei partecipanti e sollevare il livello culturale dell’incontro.

    Per le V.s. comunicazioni:
    Presidenza Accademia: fax 0523.312574
    E mail : a.corvi@alice.it
    Segreteria del Convegno dr. Taiani: fax 0461.237418

    Molti cordiali saluti

    Il Presidente
    Dr. Antonio Corvi

    Piacenza 12 Marzo 2013

    LEGGI IL PROGRAMMA DEL CONVEGNO

    La tricentenaria Farmacia Antonio Corvi in Piacenza

    Posted By on 23 novembre 2012

    Piacenza, 1470: il duca Francesco Sforza approva per la prima volta il Paratico degli Speziali, con un certo ritardo se pensiamo che la prima spezieria apre probabilmente i battenti nel primo Trecento in piazza Duomo. Ancor più lontano nel tempo, il fiorire delle spezierie cittadine era stato preceduto da quelle annesse ai conventi scaturite dalla vivace cultura del cenobio benedettino di Montecassino, ove la trascrizione di antichi testi come le teorie di Galeno e l’Antidotarium di Nicolò Salernitano aveva permesso il tramandarsi delle conoscenze legate alle proprietà delle piante officinali. Presso il monastero di S. Colombano a Bobbio possiamo dunque presumere la presenza di un monacus infirmarius dedito a preparare farmaci con le erbe dall’orto dei semplici, nel XII secolo le Crociate porteranno altre sostanze più “esotiche” come la canfora o l’oppio, e il Duecento vedrà nascere proprio nella nostra terra il suo più grande chirurgo, Guglielmo da Saliceto, che nella sua opera Cyrugia raduna tutto lo scibile di cui si potesse al tempo disporre in materia di ars farmaceutica.

    Museo della Farmacia Antonio Corvi, tinture ed estratti del primo ‘900

    La storia dei rimedi salutiferi a Piacenza s’intreccia stretta con quella della famiglia Corvi fin dal XVI secolo, quando abbiamo la prima menzione di uno speziale antenato del dottor Antonio Corvi, titolare della storica farmacia posta da oltre due secoli all’angolo tra via XX Settembre e Via Felice Frasi e Presidente dell’Associazione Italiana di Storia della Farmacia. Gli studi e le ricerche condotte dallo stesso dottor Corvi hanno individuato un Petrus de Corvis come primo gestore della Spezieria dei Poveri alla fine del sec. XVI, e come autore del 1573 di una petizione affinché Vescovo e Governatore consentissero l’apertura della bottega nei giorni festivi per le urgenze: una farmacia “di turno”, diremmo oggi, che ci dà la misura del ruolo sociale degli speziali, che pure ancora producono e vendono non solo medicamenti, ma anche altri generi come pece, candele e dolci e che durante la peste del 1630 non se ne vanno da Piacenza per restare a compiere il proprio dovere assistenziale. In quest’ottica va vista anche la seicentesca configurazione della categoria non più come Paratico, ma come Collegio e l’entrata a far parte con un consigliere della Congregazione di Povertà nello stesso secolo.

    Emblema della Farmacia Corvi

    Emblema della Farmacia Corvi

    Estintosi intanto il ramo del primo Pietro Corvi speziale cinquecentesco, nel 1650 ritroviamo una famiglia Corvi nella parrocchia di S. Alessandro, da cui proviene Antonio, apprendista della spezieria Arisi e divenuto speziale lui stesso nel 1715, stimato titolare di una sua bottega attestata nel 1737 sull’attuale corso Vittorio Emanuele al n. 100. Ed ecco che il nipote Antonio II, separatosi nel 1770 dall’attività qui gestita con uno zio, costruisce un palazzo a metà di quella centralissima via che collega il Duomo con la piazza dei Cavalli che ospita la spezieria e una drogheria, e in cui ancora oggi hanno sede la Farmacia del discendente dott. Antonio Corvi (che negli anni ’70 ha ricevuto il premio della Camera di Commercio in quanto ditta più antica della Provincia), un Museo privato dedicato alla storia dell’Officina Farmaceutica che conserva antiche strumentazioni, vasi, mobili e documenti e una preziosa biblioteca tutta dedicata all’ars farmaceutica e alle sue conquiste, pazientemente arricchita nei secoli dalla famiglia Corvi documentando i mutamenti avvenuti nella disciplina.
    La casa costruita nel 1790

    La casa costruita nel 1790

    Si va dai testi sui quali si formavano gli speziali, tra cui le Osservationi di Girolamo Calestani (1580), l’Andidotarium Mediolanense del 1658 e quello Bononiense (ed. 1750), al celebre Cours de Chymie (ed. 1697) e alla Pharmacopée Universelle(ed. 1716) di Nicolas Lémery, sino ad opere di botanica come lo splendido esemplare in folio della prima edizione (1744) della Historia Botanica Pratica di Giovanni Battista Morandi. Il figlio di Antonio II, Giovanni, è testimone nella seconda metà del Settecento dei sostanziali cambiamenti in atto, scaturiti dal legame con la scienza chimica, che stanno conducendo verso una attestazione della disciplina come scientifica a tutti gli effetti. Sono questi gli anni infatti del primo testo della chimica moderna, il Traité Élémentaire de Chimie di uno scienziato illuminista che pagherà con la ghigliottina i suoi rivoluzionari studi, Antoine Laurent Lavoisier, fondatore nel 1789 della rivista Annales de chimie di cui la biblioteca Corvi conserva l’intera collezione.
    Cav. Antonio Corvi (1796 - 1873)

    Cav. Antonio Corvi (1796 - 1873)

    Antonio Corvi III è il primo della dinastia a iscriversi alla Facoltà di Medicina presso l’Università di Parma, ottenendo nel 1816 una “speciale” laurea in “Ars Farmaceutica” che ancora non esisteva, acquisita associando agli studi medici quelli di storia naturale e di botanica; a lui si deve il ricettario del 1820 contenente più di 700 formule, utilizzate anche nella seconda metà del secolo quando ormai il laboratorio, con il figlio Luigi, ha assunto una configurazione preindustriale.
    L’avvento dell’industria farmaceutica ha modificato profondamente il lavoro del farmacista moderno che, forte di una così radicata tradizione, sa però associare alle nuove funzioni legate ai farmaci prodotti industrialmente un’attività di laboratorio che oggi predilige le preparazioni galeniche in piccola serie e quelle magistrali su ricetta medica.
    La vetrina per le Esposizioni Nazionali della fine dell'Ottocento

    La vetrina per le Esposizioni Nazionali della fine dell'Ottocento

    Spiega il dottor Antonio Corvi, evidenziando come la pratica farmaceutica tradizionale non può prescindere dall’attività del proprio laboratorio: “Prendendo in esame le farmacopee europee, adottiamo le formule adatte al consumo locale eseguite secondo le norme di Buona Preparazione della Farmacopea Ufficiale. Si preparano anche dermocosmetici in associazione ad altri colleghi, e integratori a proprio marchio; ci si rapporta ai clienti con disponibilità, per andare incontro alle loro esigenze tramite analisi o un consiglio professionale inerente disturbi o intolleranze alimentari”. Antonio Corvi si divide tra la conduzione della Farmacia e lo studio delle radici dell’Ars Farmaceutica, ed è autore di una vastissima bibliografia in materia tra cui spiccano L’officina Farmaceutica, Pisa 1999, La prima Farmacia a Piacenza nel 1300, Genova 2009 e il recente Cronache dell’Accademia di Storia della Farmacia 20012011, Piacenza, Ediprima 2011.

    L'Officina Farmaceutica del Museo


    Il moderno laboratorio di oggi

    Le Antiche Farmacie in Italia – Il Calendario dell’Accademia per il 2013

    Posted By on 24 ottobre 2012

    L’Accademia propone ancora una volta questa pubblicazione ai farmacisti che intendono continuare nella nostra tradizione sanitaria. Non è un calendario nel senso comune, ma rappresenta un lavoro continuo di ricerca di testimonianze dell’arte legata alla professione. Come tale è apprezzata da tutti coloro che sanno distinguere, e quindi preferire, la vera farmacia dalle rivendite di medicinali sempre più numerose nel nostro Paese.

    La raccolta di immagini ha già superato il numero di 150 farmacie e presto darà luogo ad un volume comprensivo di altre realtà non ancora venute alla nostra conoscenza.

    Un sentito grazie ai colleghi che sostengono l’iniziativa.

    Antonio Corvi

    OFFERTA CALENDARIO ANTICHE FARMACIE ITALIANE 2013

    L’undicesima edizione del Calendario verrà anticipata per soddisfare la richiesta di chi desidera riceverlo entro il mese di novembre. I costi sono come sempre contenuti, pur permettendo la devoluzione del 20% degli utili all’Accademia.

    QUI il form da compilare per la prenotazione dei calendari e QUI un “assaggio” di questa bella pubblicazione.

    Louis Crusius e i calendari Antikamnia

    Posted By on 19 ottobre 2012

    Bene o male tutti conoscono la locuzione latina memento mori. La frase trae origine da una singolare usanza tipica della Roma antica. Quando un generale rientrava da un’impresa di successo nella città e sfilava in trionfo nelle strade, raccogliendo onori e tripudi dalla folla, poteva correre il rischio di essere sopraffatto dalla presunzione e dalla superbia. Per ovviare a questo rischio, un servo dei più umili, veniva incaricato di ricordare al festeggiato la sua natura umana, pronunciando proprio queste parole.
    Altrettanto nota è la vasta influenza che questa usanza ha avuto nelle arti figurative a partire dall’antichità classica fino ai nostri giorni. Dagli affreschi delle catacombe romane alle fotografie “post mortem” di epoca vittoriana, sfilano queste rappresentazioni in cui vengono accostate bellezza e repulsione, vanità e morte.
    È di questi ultimi anni il recupero e lo studio di questo particolare tema, non più da parte dei soli storici e critici dell’arte, ma anche da antropologi, psicologi, sociologi.

    È interessante notare come questo fenomeno, abbia interessato anche campi che per definizione, sono preposti alla conservazione della vita, quali la medicina e la farmacia ma comprensibilmente, proprio a queste arti, mai è venuta a mancare quella familiarità con la morte e il morire, non meno di quanto lo siano il riprodursi e il nascere. Il rimedio come portatore di salute e salvezza ma anche di morte, “toxicum et venenum” dicevano gli alchimisti.

    In questo ambito si collocano le particolari illustrazioni in cromolitografia dei calendari promozionali dell’Antikamnia (letteralmente “contro il dolore”, una specialità farmaceutica a base di acetanilide (1), o antifebbrina, combinata con bicarbonato di sodio, acido citrico e caffeina), prodotta dall’Antikamnia Chemical Company of St. Louis, Missouri.

    Louis Crusius

    Louis Crusius

    L’autore delle immagini, Louis Crusius (1862-1898) era uomo eclettico, dotato di viva intelligenza e di grande umorismo. Maggiore dei nove figli di Ludwig e Emilie Crusius, era nativo di Sauk City (Wisconsin). A quindici anni, divenne apprendista nella stamperia del giornale di suo padre, un quotidiano locale in lingua tedesca, per poi andare in Texas a lavorare nella farmacia di suo zio, medico e farmacista. Nel 1880, si trasferisce a St. Louis (Missouri) dove si diploma al St. Louis College of Pharmacy nel 1882. Acquistata una quota della farmacia Scheel e Crusius, situata all’angolo tra 14th Street e Clark Avenue, con Gustav Scheel come socio, Crusius continua nei suoi studi fino alla laurea in medicina e chirurgia nel 1890, anno in cui abbandona la gestione societaria della farmacia. A questi anni risalgono i suoi “Funny Bones”, disegni originariamente concepiti per le vetrine della farmacia e in seguito facenti parte dell’omonima raccolta di barzellette a carattere sanitario del 1893. Negli anni seguenti diventa professore di istologia presso il Medical College Marion Sims, un precursore della St. Louis University Medical Department, ma nonostante gli impegni, non smette di disegnare. A questo periodo risalgono le opere migliori e più mature di Crusius come artista ed umorista, tra cui quelle destinate a scopi pubblicitario per la Chemical Company Antikamnia per i suoi calendari apparsi dal 1897 al 1901. Purtroppo Crusius non vide la pubblicazione della maggior parte di queste sue opere. Durante un’operazione esplorativa, a seguito di una forte ematuria, gli diagnosticarono un carcinoma a cellule renali (ipernefroma), che in breve tempo lo portò alla morte il 2 gennaio 1898, all’età di soli 35 anni.

    Louis Crusius, mesi gennaio - febbraio del calendario promozionale Antikamnia del 1900

    Louis Crusius, mesi gennaio - febbraio del calendario promozionale Antikamnia del 1900

    Due di questi calendari riprodotti integralmente, sono liberamente consultabili sul sito della Biblioteca Biomedica Louise M. Darling dell’Università della California; stampati in edizione limitata e inviati a medici e farmacisti solo su richiesta, hanno oggi una buona quotazione collezionistica.

    Louis Crusius, Calendario Antikamnia per il 1901

    Calendario Antikamnia 1901, luglio - agosto - settembre, retro

    Calendario Antikamnia 1901, luglio - agosto - settembre, retro

    In queste opere, Crusius, fronteggia apertamente il problema della mortalità. E farlo non è facile per nessuno: la morte sembra cancellare qualsiasi individualità, azzerare tutto ciò per cui abbiamo vissuto. Eppure qualsiasi rappresentante della commedia umana è chiamato a incontrarla. È una certezza ma allo stesso tempo un enigma, il più profondo della nostra esistenza e che si risolverà solo alla cessazione di quest’ultima. Questa è la constatazione che fa Crusius e a questo pare non ci sia rimedio nei suoi disegni. Non si ha nessuna negazione, come poteva esserci nel caso delle coeve fotografie vittoriane “post mortem” dove alla morte, si contrapponeva la rappresentazione, la più fedele possibile, del deceduto in vita, fino ad originare una sorta di mummificazione visiva, estremo gesto apotropaico a consolazione dei vivi. Se in questo caso i corpi venivano manipolati per sembrare vivi, in Crusius sono i vivi ad essere rappresentati come morti. Il medico sente il polso del paziente moribondo ma sembra non accorgersi di contare anche i suoi passi verso l’ineluttabile destino.

    Louis Crusius - La diagnosi - Calendario Antikamnia per il 1897

    Tuttavia nei crani di Crusius non sono assolutamente distinguibili espressioni di sofferenza o di orrore. Il tratto è sempre fresco e vivace, anche l’espressione dello sguardo, intuibile dalle vuote orbite per quanto incredibile possa sembrare, è di totale serenità e persino di allegrezza. L’intera scenografia è ricca di riferimenti alla vita, alle piccole cose di tutti i giorni: i farmacisti che si avvicendano tra il laboratorio e il banco, il rappresentante di prodotti farmaceutici, l’infante soddisfatto con il suo biberon. Così Crusius elabora felicemente il concetto di morte in quanto presenza necessaria all’interno dei circuiti affettivi e socializzanti dell’umanità, e proprio in questo si pone il suo grande merito.

    Louis Crusius - Il rappresentante - Calendario Antikamnia per il 1899

    Louis Crusius, illustrazione per il calendario Antikamnia per il 1897

    Note

    (1) L’effetto antipiretico e antidolorifico dell’acetanilide, un derivato dell’anilina, fu scoperto casualmente per un scambio di flaconi da Cahn e Hepp, due medici tedeschi, già nel 1886, mentre stavano testando il naftalene come possibile vermifugo; ma sin da allora l’acetilanilide si rilevò abbastanza tossica, tanto che la FDA nel 1906 la dichiarò non più utilizzabile nelle forme farmaceutiche. Successivamente (1948) si scoprì che l’acetanilide viene metabolizzata nell’organismo, con un processo di ossidazione, a 4-acetammido-fenolo (paracetamolo), il responsabile della sua azione terapeutica, ed a fenilammina (anilina) Quest’ultima è una sostanza estremamente tossica che causa metaemoglobinemia (patologia in cui l’emoglobina danneggiata si rivela incapace di trasportare l’ossigeno ai tessuti con conseguente cianosi), danni a fegato e reni. L’Antikamnia venne commercializzata in America e Europa, con campagne pubblicitarie “molto aggressive”, dalla omonima compagnìa, in varie composizioni e con diverse indicazioni terapeutiche. Le varie specialità comprendevano, e a volte in misura molto variabile, codeina, chinino, salicilato di fenile (salolo) e persino morfina ed eroina. Delle interessanti vicende in chiaroscuro di questa ditta tratteremo in un prossimo articolo.

    Le specialità Antikamnia

    Biografia

    Antikamnia Calendars 1899 – 1900, UCLA Biomedical Library History and Special Collections for the Sciences
    “Funny bone: A book of mirth. For doctors, druggists, dentists, medical students, and others. Containing funny jokes, good stories, dialogues, conundrums, ludicrous things, ditties by Louis Crucius”; Woodward and Tiernan printers, St Louis, 1893
    “Dr. Louis Crusius by Robert E. Schluter,” January 24, 1933
    “The pictorial pranks of Dr. Louis Crusius by Guy Forshey.” St. Louis Post-Dispatch , February 5, 1933 Images from the Louis Crusius artifacts collection (VC217)
    The American Journal of Roentgenology AJR:182, 1984: ‘Medicine in American Art: The Diagnosis’ by Stefan Schatzki; breve articolo.
    Acetaminophen (Tylenol®) Adapted by Basits, Chiniwalla, Halpern, and Minard (PSU ’93) from Pavia’s Organic Laboratory Techniques, Saunders College Publishing, Philadelphia (1990)
    United States versus Antikamnia Chemical Co. – 231 U.S. 654 (1914) – No. 118; Argued December 9, 1913; Decided January 5, 1914; 231 U.S. 654
    POISONING BY ANTIKAMNIA by HUBERT N. ROWELL, M. D., Berkeley, 1907

    Le etichette della collezione Emanuelli

    Posted By on 6 luglio 2012

    L’etichetta di una specialità farmaceutica è da secoli, il mezzo principale di comunicazione tra il farmacista e il paziente. Essa ha sempre svolto molteplici funzioni, che tuttavia si possono ricondurre a due essenziali: identificare il medicamento e valorizzare il prodotto. L’etichetta si è arricchita nel tempo di informazioni, così da assumere nuove valenze estetico-propagandistiche e giuridiche; testimone dell’evoluzione dei parametri igienico-sanitari del periodo in cui essa si colloca, dona un’immagine di prestigio al farmaco attraverso una bella presentazione, ne descrive ingredienti ed effetti, data la preparazione e il limite di utilizzazione fino a riportarne, ma solo in tempi recenti, anche la tracciabilità nella filiera produttiva.

    Particolare di una cartolina pubblicitaria della Farmacia Emanuelli


    Gastrofilos Emanuelli

    A partire dal XVIII sec. le etichette aumentano la loro superficie e migliorano nell’aspetto estetico, seguendo l’affinamento dei sistemi di stampa.
    Dalla seconda metà del XIX sec. i caratteri tipografici sostituiscono, con una buona varietà, la scrittura manuale, specie per le nuove produzioni semi-industrializzate. Compaiono diversi formati che rispecchiano l’adattamento alle diverse tipologie di confezionamento. Quando una singola etichetta, risulta insufficiente a contenere tutte le informazioni richieste, si predispone di una seconda o una terza ausiliarie.

    Galafer Emanuelli


    All’inizio del XX sec. le etichette raggiungono il massimo del loro splendore artistico. A questo periodo appartengono gli esempi riportati in questo articolo, tutti provenienti dalla collezione Emanuelli.

    Caffè Excelsior Emanuelli

    Fascetta

    Fascetta

    Sprudelsalz Emanuelli

    Eutricogeno Emanuelli

    Gastrofilos Emanuelli

    Acqua del Vichy Emanuelli e varie

    Programma di viaggio per la partecipazione al Congresso internazionale di Storia della Farmacia di Parigi (07-15.09.2013)

    Posted By on 5 luglio 2012

    Programma di viaggio per la partecipazione al Congresso internazionale di Storia della Farmacia di Parigi (07-15.09.2013).
    L’Accademia Italiana di Storia della (AISF) organizza un viaggio culturale in abbinamento al Congresso Internazionale di Storia della Farmacia che si terrà a Parigi dall’11 al 13 settembre 2013 presso il Couvent du Cordellier dell’Università Pierre e Marie Curie. La partecipazione è aperta non solo ai soci ma anche agli studiosi di storia della farmacia.
    Il programma è pubblicato anche nel portale dell’AISF (www.accademiaitalianastoriafarmacia.org),
    in forma non ancora definitiva, per permettere, ai partecipanti ancora in attività di fissare la data delle ferie.

    Il viaggio sarà effettuato con un minimo di 25 partecipanti (al momento ci sono già 17 soci interessati). Le iscrizioni verranno raccolte a partire da gennaio 2013 esclusivamente con posta elettronica al seguente indirizzo : vittorio.cassani@alice.it, e successivamente verranno date le istruzioni da seguire per il pagamento. Il termine di iscrizione al viaggio scade improrogabilmente il 30.04.2013.

    Programma preliminare :

    1° giorno (sabato 7 settembre 2013)
    Partenza in bus da Milano alle ore 9. Durante i trasferimenti in bus sono previste delle fermate lungo il percorso per pause fisiologiche, pranzo e per il riposo obbligatorio dell’autista (normativa UE). Arrivo a Montpellier nella serata; cena e pernottamento in albergo. (640 Km).

    2° giorno (domenica 8 settembre 2013)
    Incontro con la curatrice del museo universitario Dott. Colette Charlot, e visita accompagnata dei musei universitari (Musée de la Pharmacie et Droguier de Pharmacie), visita libera del centro storico e della tomba della regina Elena. Cena libera.

    Montpellier - Musée de la Pharmacie et Droguier de Pharmacie

    3° giorno (lunedì 9 settembre 2013)
    Partenza per Digione, in Borgogna. Compatibilmente con gli orari di visita verrà effettuata la visita della città di Orange luogo d’origine della casa reale olandese e dove sono visitabili l’antico teatro romano e l’arco di trionfo della città romana di Arausio. Cena e pernottamento in albergo (494 Km).

    4° giorno (martedì 10 settembre 2013)
    Visita del centro storico di Digione ,visita libera al museo delle belle arti, e partenza per Parigi nel pomeriggio. Per i partecipanti al congresso è prevista la partecipazione al cocktail di benvenuto all’Hotel des Invalides alle ore 19.30 (315 Km).

    5°-6°- 7° giorno (mercoledì 11.09.2013-venerdì 13.09.2013)
    Gli iscritti al congresso seguiranno il relativo programma (il congresso si svolgerà presso il Couvent du Cordelier sito nel quartiere latino dalle ore 9 di mercoledì alle ore 17.30 di venerdì. Venerdì sono previste delle visite scientifiche per piccoli gruppi dalle ore 17.30 alle ore 19). Gli altri partecipanti si dedicheranno a visite libere della città. Pernottamento in albergo.

    Cartolina storica - Pharmacie de l'Hôtel Dieu, Beaune

    7° giorno (sabato 14.09.2013)
    Partenza per Tournus in Borgogna. Tappa a Beaune, dove si visiterà l’ Hôtel Dieu del 1443 ancora corredato di un’antica farmacia, e all’antica abbazia di Cluny. Arrivo a Tournus e visita dell’ Hotel Dieu del XVII secolo. Cena e pernottamento in albergo (370 Km).

    8° giorno (domenica 15.09.2013)
    Partenza per Milano via traforo del Monte Bianco(500 Km). Su richiesta si potrà effettuare una fermata a Torino, dove possono essere prese delle opportune coincidenze ferroviarie.

    I costi, da definire, comprendono tutti i pernottamenti, le cene del 1°,3° e 7° giorno, e il trasporto con il bus per tutta la durata del viaggio, e saranno pagati all’agenzia.
    I biglietti dei musei,di alcuni pranzi comuni,e le mance agli autisti saranno pagati con una cassa comune che sarà raccolta sul bus.

    Beaune - Hôtel Dieu

    I partecipanti sono assicurati contro gli infortuni e il furto del bagaglio. In ogni caso si raccomanda di portare con se la tessera sanitaria, oltre al documento d’identità.

    Nel caso si dovesse spostare al lunedì mattina la visita dei musei farmaceutici di Montpellier, si visiterà Avignone la domenica.
    Chi intende partecipare ai lavori del congresso internazionale deve iscriversi individualmente, seguendo le modalità indicate dagli organizzatori ( Dr. Lafont ) e riportate nel sito www.41ichp.org e in corso di pubblicazione.

    Milano,01.06.2012

    Presentazione della raccolta “Cronache dall’Accademia”

    Posted By on 25 maggio 2012

    Un percorso di civiltà

    E’ stato proprio emblematico il titolo -“Un percorso di civilta”- con il quale nel gennaio 2001 è nata la rubrica che inaugurava la collaborazione tra il mensile “Farma Mese” e l’Accademia di storia della farmacia italiana. Già in questo primo articolo del presidente Antonio Corvi appariva chiara, infatti, la passione che anima questo gruppo di fervidi cultori della tradizione professionale, che sa trarre linfa da una storia millenaria continuamente alimentata da proficui studi e ricerche.

    L’Accademia, infatti, produce una gran mole di lavoro, che va dai volumi storici ai numerosi articoli pubblicati, dalla edizione degli antichi Statuti degli speziali italiani alla realizzazione della dotta rivista “Atti e Memorie”, dall’annuale appuntamento congressuale al bel calendario che da oltre dieci anni ci documenta sulle antiche e artistiche farmacie italiane, patrimonio prezioso non solo della categoria, ma dell’intera società.
    Un’attività assai meritevole spesso purtroppo non adeguatamente valorizzata, perché i più -troppo presi dalle problematiche quotidiane- talvolta dimenticano l’importanza delle proprie radici e, soprattutto, quell’insegnamento che pone la storia come “maestra di vita”.

    Proprio la consapevolezza che non si può affrontare il futuro senza contare su solide fondamenta ci ha spinti a ospitare una rubrica che nel tempo è diventata per i nostri lettori un prezioso appuntamento mensile. Così, mese dopo mese, il presidente Corvi ha scritto per “Farma Mese” la sua pagina dedicata alle cronache dell’Accademia, costruendo man mano, tessera dopo tessera, un mosaico di quanto fatto in questo decennio.

    E’ un’opera preziosa, che testimonia -anche ai colleghi smemorati- quanto sia importante poter vivere il presente e guardare al futuro avendo ben salde le radici professionali. Un’opera che ci guardiamo bene dal considerare conclusa, perché questo mosaico -novella tela di Penelope- ci auguriamo non finisca mai, così come mai deve finire, per tutti i farmacisti italiani, l’amore per la Storia della loro professione e la riconoscenza per quanto di prezioso ha fatto e continua a fare l’Accademia.

    Lorenzo Verlato
    Direttore di Farma Mese

    Risalgono a 77000 anni fa i primi indizi di pratiche igienico–sanitarie dell’Homo sapiens

    Posted By on 3 gennaio 2012

    Questa scoperta porta indietro nel tempo l’uso di particolari tecniche di realizzazione per i giacigli dell’Homo sapiens di ben 50.000 anni rispetto a quanto ritenuto finora, ed offre un affascinante spaccato delle pratiche igieniche dei primi uomini moderni nel Sud Africa.

    Sito archeoogico di Sibudu (Per gentile concessione di C. Sievers)

    La ricerca e stata condotta dal professor Lyn Wadley dell’Università del Witwatersrand, Johannesburg, in collaborazione con Christopher Miller (Università di Tubinga, Germania), Christine Sievers e Marion Bamford (Università del Witwatersrand), e Paul Goldberg e Francesco Berna (Università di Boston), e pubblicata su Science del 9 dicembre 2011.

    Il Prof. Christopher Miller campiona i sedimenti in relazione agli strati geologici. ( Per gentile concessione del Prof. Lyn Wadley)

    I giacigli sono stati scoperti durante gli scavi nel riparo di Sibudu (KwaZulu-Natal, Sud Africa), un sito archeologico molto ricco, dove il team sta scavando dal 1998.
    Almeno 15 diversi strati del sito contengono piante che fungevano da lettiere, datate tra 77.000 e 38.000 anni fa.

    Spiga di Sibudu cyperus, c.ca 73000 anni fa. SEM, 66x. (Per gentile concessione di Christine Sievers )

    Questa sorta di materasso è stato realizzato utilizzando alcuni centimetri di spessi strati di steli compattati e foglie di giunchi e si estende per almeno un metro quadrato e fino a tre metri quadrati nell’area di scavo.
    Christine Sievers, dell’Università del Witwatersrand, è stata in grado di identificare i piccoli semi (nucule) da diversi tipi di carici, erbe a stelo lungo molto diffuse in tutto il mondo, e giunchi utilizzati nella costruzione della lettiera. Ma il particolare più interessante è giunto dall’analisi delle parti più superficiali del giaciglio.
    La lettiera è ricoperta da uno strato sottile, simile a un tessuto-carta di foglie, identificate dal botanico Marion Bamford come appartenenti alla Cryptocarya woodii, un albero sempreverde, chiamato anche alloro di montagna, che produce dei frutti eduli nero-violacei.

    Campione del giaciglio. È evidente alla superficie, lo strato di foglie di Cryptocarya woodii. (Per gentile concessione di Marion Bamford - Science/AAAS)


    È risaputo che le foglie di questa pianta contengono sostanze chimiche che hanno proprietà insetticide, e quindi sarebbero state adatte a respingere zanzare e pulci.
    “The selection of these leaves for the construction of bedding suggests that the early inhabitants of Sibudu had an intimate knowledge of the plants surrounding the shelter, and were aware of their medicinal uses. Herbal medicines would have provided advantages for human health, and the use of insect-repelling plants adds a new dimension to our understanding of behaviour 77,000 years ago,” dice il Professor Lyn Wadley. Inoltre, l’ analisi microscopica del letto, svolta da Christopher Miller, professore di geoarcheologia presso l’Università di Tubinga, suggerisce che a partire dai 73000 anni, gli abitanti rinnovavano ripetutamente gli strati di giunchi e le foglie insetticide, bruciandoli in modo da eliminare i parassiti. “The inhabitants would have collected the sedges and rushes from along the uThongathi River, located directly below the site, and laid the plants on the floor of the shelter. The bedding was not just used for sleeping, but would have provided a comfortable surface for living and working”, aggiunge Wadley.
    E’ probabile che, sebbene i primi Homo sapiens fossero poco colpiti da malattie infettive, soffrissero di parassitosi e infestazioni (oltre che a causa di ferite, traumi, di infezioni croniche a bassa intensità della pelle e del tratto gastrointestinale), in quanto queste, sembrano essere le uniche patologie che possono mantenersi attive in popolazioni numericamente esigue, o perché durano a lungo (dissenteria amebica), o perché si alternano tra ospiti diversi, come succede ad esempio nella schistosomiasi e nella leishmaniosi.

    Documentario BBC Two: Victorian Pharmacy

    Posted By on 15 dicembre 2011

    Segnaliamo un piacevole e interessante documentario della BBC Two in quattro episodi di un’ora ciascuno, con la ricostruzione fedele di una farmacia inglese nel 1837, durante il regno della Regina Vittoria. La farmacia e stata ricreata a Blist Hill Victorian Town, un museo a cielo aperto (uno dei dieci musei gestiti dalla Ironbridge Gorge Museum Trust, costruito su un ex complesso industriale situato a Madely, nelle vicinanze di Telford, nello Shropshire), che cerca di ricreare luoghi, suoni e odori di una città vittoriana tra il tardo XIX e gli inizi del XX secolo. Ci accompagnano nel viaggio, tra sanguisughe, olio di lombrico, pozioni a base di cannabis e oppio, la storica Ruth Goodman, il Prof. Nick Barber, docente alla School of Pharmacy University of London e il dottorando Tom Quick. Molte scoperte e invenzioni, ancora oggi largamente utilizzate, risalgono proprio a farmacisti inglesi di quel periodo, come l’inalatore per le affezioni polmonari, i fiammiferi, i disinfettanti e non ultimo per il palato, la salsa Worcester… Il DVD con i quattro episodi, si può acquistare presso il BBC Shop.

    La farmacia e la famiglia, presidi secolari della salute

    Posted By on 17 novembre 2011

    Il Calendario Antiche Farmacie che presento ormai da 12 anni e stato ideato per due fondamentali motivi:
    –riaffermare l’immagine del “modello mediterraneo” della Farmacia, l’unico che sia rimasto immutato e valido per otto secoli
    –cercare di salvare dalla dispersione o dalla demolizione una testimonianza di arte povera esclusiva del nostro Paese e sempre a disposizione dei visitatori di questi “musei aperti” che onorano la professione.

    Ritratto di Federico II, "De arte venandi cum avibus" f.2

    Il modello mediterraneo si dice tale, perché ideato da Federico II° nella sua Corte di Palermo e proclamato nelle Costituzioni di Melfi nel 1241 presenta i cardini della professione farmaceutica
    1) Concessione dello Stato per l’apertura dell’esercizio nella misura ritenuta necessaria dall’autorità
    2) Pianta organica delle farmacie a copertura del territorio
    3) Tariffa uguale ed obbligatoria per tutti.

    Prima e dopo questa presa di posizione da parte dell’Imperatore del Sacro Romano Impero, vi furono altri due esempi di modelli legislativi, su aree più ridotte; modelli che nascono dal basso e raccolgono istanze della pratica del vivere quotidiano in quell’immensa periferia europea dell’Impero.

    Le Leges Municipales Arelatis, dalla comunità di Arles, sulla strada che da Montpellier scende verso la Spagna, battuta precedentemente dalla cultura araba in estensione verso l’Euro­pa, anticipa i seguenti principi:
    1) Netta divisione tra medici e farmacisti,con divieto di società tra i due
    2) Obbligo di preparare i farmaci su prescrizione, seguendo i dettami di un Antidotario ufficiale
    3) Giuramento e pene pecuniarie per i contravventori. Queste sono tre volte più pesanti per il farmacista, riconoscendo la sua responsabilità sulla qualità reale del farmaco

    L’accesso alla professione qui appare libero; si introduce un concetto etico nella scelta di chi sarà ammesso alla professione: la correttezza assoluta nei riguardi del pazienti    più avanti, nei riguardi dei colleghi.
    Queste leggi comunali si formano tra il 1260 e il 1202.

    I Capitolari delle Arti Veneziane (1258), sono opera della Giustizia Vecchia a cui il Doge Ranieri Zen demanda l’invenzione delle regole per la migliore organizzazione di un comune che gradualmente, diverrà uno Stato.
    È confermata la divisione tra medico e farmacista in funzione della tutela della gente. Punti chiave delle disposizioni sono:
    -Divieto di vendita di veleni (cap. 3)
    -Il farmacista deve consigliare ai richiedenti un medico
    capace ed onesto, secondo la propria esperienza.
    -Non valersi di alcun sensale per scopi pubblicitari (cap. 6)
    Obbligo di segnalare alla Giustizia l’esistenza di medicinali guasti o contraffatti (cap.9)
    -Informare ii paziente sul giusto prezzo del farmaco e denunciare chiunque agisca contro questi Ordinamenti.
    Mi sembra che la figura del farmacista come uomo e come tecnico risulti molto rafforzata, anche nei riguardi del medico.

    Alla fine del XI sec. le autonomie comunali si affermano a partire da Milano, Lucca, Pisa, Parma. Le Arti sono libere associazioni create in difesa dei produttori e dell’economia locale, in concorrenza con quella forestiera. Hanno uno spiccato carattere religioso, senso della dignità degli associati, rispetto della discipline interne e della collegialità.
    Negli Statuti degli Speziali, categoria che si propone ai vertici del Collegio dei mercanti, dopo i fabbricanti di tessuti e al part degli orefici, compaiono fra i numerosi capitoli disposizioni in favore della famiglia .
    Quasi sempre la chiusura nei riguardi degli estranei favorisce la continuità della attività da parte dei figli, essendo privilegiata la loro iscrizione nella matricola
    A Firenze, l’estraneo che volesse entrare nella categoria doveva pagare trenta lire alto speziale che lo assumesse come apprendista per tre anni. Doveva poi pagare quattro fiorini come tassa per entrare nella corporazione, tassa dalla quale i figli dello speziale erano esenti.
    A Milano , per entrare nel paratico occorreva avere una rendita di almeno 50 scudi e dalla professione erano esclusi i figli di persona esercitante mestieri vili,
    A Piacenza, obbligo per I collegiati di presenziare non solo ai funerali del collega ma anche a quelli della moglie e dei figli, con offerta di cera alla chiesa.
    A Venezia lo statuto della corporazione elevata a Collegio degli Speziali nel 1565 per disposizione del Doge Gerolamo Priuli, dispone al cap. XVI che nessuno poteva tenere la farmacia a mezzo di un sostituto, ad eccezione del figlio e del nipo­te. Il motivo era non essere conveniente che “…chi non sa ne intende tale arte ,debba praticarla”. È la conferma che l’insegnamento era soprattutto famigliare e che ii Collegio interveniva solo per l’esame di ammissione alla matricola. Secondo il cap. XXXIV ,figli e nipoti potevano continuare a tenere la bottega pagando metà della tassa dovuta e potevano anche giovarsi, in caso di necessaria sostituzione, di altro giovane approvato.
    Fin qui leggi, occorre vedere come venivano applicate e come hanno inciso sulla pratica quotidiana e come sono diventa­te consuetudine con l’evolversi del tempo.

    La continuità famigliare degli inventari di J.P.Benezet
    Ci viene in aiuto un poderoso studio di uno storico francese che ha analizzato 138 inventari di spezierie medioevali raccolte nell’area mediterranea occidentale dall’Aragona alla Sicilia ,passando per Catalogna, Provenza e penisola italica. Erano redatti in occasione di vendite e più spesso di successioni. Da essi risulta che le vedove potevano gestire la bottega del marito per più o meno tem­po. La sua reggenza doveva permettere al figlio abilitato di occupare il posto del padre. Il riscontro legislativo dice che a Barcellona era concesso un periodo di ottodieci anni, con le gestione provvisoria di un commesso approvato dalla corporazione (1433). La vedova doveva mantenere il cognome del marito e non ri­sposarsi. La sua funzione cessava al ventiquattresimo compleanno del figlio.
    Condizioni più o meno uguali si riscon­trano negli statuti più tardi di Montpellier (1572), Nimes (1573), Arles (1636). Secondo uno studio spagnolo condotto (Esteva de Segrera) nel 1977, gli statuti più  liberali erano quelli di Marsiglia, dove la vedova poteva continuare la ge­stione senza limiti di tempo (1574), si esigeva solo la pre­senza di un servitore competente.
    La continuità famigliare era favorite della struttura im­mobiliare del patrimonio e si verificava più spesso quando la spezieria era compresa nella case di abitazione
    I primi inventari in Italia sono quelli di grandi spezierie sorte a Genova dove giungevano le droghe orientali, specialmente dal mercato di Cipro. Nel 1227 lo speziale Enrico di Torre, rimasto vedovo, si ritira in convento e lascia al fi­glio un patrimonio del valore di oltre 300 lire genovesi. Comprendeva undici tipi di droghe in notevole quantità, come 130 Kg di pepe, 38 di cardamomo e 250 cassette di allume del monte Argentario . Ancora pia interessante l’inventario seguito alla morte dello speziale Dondino ,redatto da un notaio in presenza di un Console di Giustizie e del collega Oberto, dichiarato tutore del figli minorenni. Qui soro annotati, oltre ad un Antidotario, molti prodotti composti pronti per la dispensazione dalla Benedicta lassativa all’elettuario per i vermi, il Diamargheriton (1259).
    Questa attività appare totalmente libera nell’ambito delle altre attività commerciali ed un altro inventario del 1312, riguarda la vendita di una apoteka e della casa dei coniugi Lanfranco e Giovannina allo speziale Gregorio di Monte.
    E’ molto noto il Memoriale dello speziale grossista di Asti, Guglielmo Ventura (1250-1322), importante per la storia piemontese perché l’uomo ricoprì incarichi politici per la sue citta. In esso è compreso un suo testamento del 1312,un vero trattato di deontologia rivolto ai figli, che incitava a non abbandonare la professione, da vivere con onesta e senza voglia di arricchire in fretta. Fu anche protagonista della estensione della farmacia, sulle strade che da Genova portavano alle regioni dell’interno. Qui si sviluppavano delle spe­zierie di minori dimensioni, che si limitavano alla dispensa­zione al pubblico. Il documento piacentino illustra un con­tratto d’affitto del 1309, con il quale, certo Guidoto Tagliaferro, acquista anche ii “massericium” necessario alla gestio­ne per lire 18. In tal modo si giunse alla occupazione del territorio, come era nelle intenzioni di Federico II; ed è sintomatico, se le parole hanno un senso, che questa spezieria sulla piazza del Duomo di Piacenza venga appellata “stacio” ossia posto di guardia. Lo stesso termine usato nelle Costitutiones melfitane. Lo stesso documento conferma in forma indiretta l’impossibilità di sopravvivenza di dette stacio con la cola vendita di medicinali. Infatti nell’inventario degli strumenti compare “l’asse per lissar candelle”,la prima testimonianza un privativa, la lavorazione della cera vergine, con l’applica­zione del marchio dello speziale. Questo mai ufficializzato aiuto alla diffusione delle farmacie da parte della Chiesa ampiamente confermato dal citato studio di Benezet per tutto 11 bacino mediterraneo. Altrettante testimonianze si hanno negli statuti degli speziali da noi pubblicati.

    L’era moderna
    La continuità famigliare non diventerà più visibile prima dell’era moderna. Dopo la peste del 1630 , non si verificano più tante estinzioni di famiglie a cause delle epidemie. Si consolidano famiglie forti, e numerose, che si impongono in ogni settore operativo. Ho potuto seguire le vicende della mia citta dove dall’inizio del XVIII sec. si impongono tre farmacie, situate in tre punti chiave del centro. La Pulzoni presso il Duomo, la De Zoppis, che faceva anche il servi­zio per i poveri con i fondi della Congregazione di Carità, presso ii palazzo del Comune e la Corvi, a metà della via che collegava ii polo religioso a quello civico. In appendice allego altre precisazioni su queste sedi che furono attive rispettivamente per un secolo, per più di 200 anni e, nel mio caso fino ad oggi.
    Il segreto del loro successo stava si nella capacità e nella cultura di alcuni loro esponenti; a Parma l’Università istituisce il laboratorio di chimica alla meta del secolo e attiva il corso universitario presso la facoltà di medicina nel 1767. Alcuni ne trassero maggior frutto, lo testimonia ad esempio la biblioteca storica della mia farmacia che comprende 25 testi farmaceutici usciti nel secolo dei lumi.
    Operativamente la continuità, vista bone dalle autorità per la sicurezza che conferiva al servizio cittadino, permetteva a queste farmacie di acquisire gradatamente i migliori cli­enti, ossia le famiglie nobiliari che avevano ormai tutte il palazzo in citta e i numerosi conventi. Poiché pagavano alla fine dell’anno, acquistavano volentieri farmaci e composizio­ni di tipo confortativo. Qui saldo la mia relazione con quella tenuta al recente Congresso internazionale di Berlino con la collaborazione di Ernesto Riva. Devo premettere che un mio antenato Antonio (1796)-1873) fu inviato dal padre alla scuola di medicina di Parma, che nel 1816 gli concesse una laurea in Ars Pharmaceutica, dopo aver sostenuto esami di chimica generale, chimica farmaceutica, botanica, scienze naturali. Fu una cosa abbastanza eccezionale poiché Maria Luigia istituì poi un corso abbreviato per farmacisti che concedeva un diploma sufficiente a svolgere la professione. Di lauree in farmacia non se ne parlerà più per molti decenni. Il risultato pratico di questa esperienza fu che detto dr. Antonio acquisterà un consistente numero di testi, che ho presentato a Berlino come specchio della cultura farmaceuti­ca in Italia tra ’700 ed. ’800. E’ molto evidente il nostro ritardo rispetto alle scuole europee (francese, tedesca ed inglese). La maggior parte dei libri stampati prima del 1840 risulta edita a Parigi e in secondo luogo a Milano, se erano tradotti in italiano, insieme ai testi della scuola di Pavia.

    In sostanza la cultura farmaceutica, che segna la nascita della nuova farmacia basata sulla scienza chimica con un ap­proccio scientifico alla conoscenza della materia, fu gesti­ta da uomini intraprendenti grazie alla continuità professionale della loco famiglia. La nascita dell’industria farmaceutica in Italia ebbe per­ciò un carattere diverso dal modello societario europeo; furono privati a gestirla, da Schiapparelli a Carlo Erba, da Lepetit a Zambelletti, da Recordati a Corvi Camillo ecc. Certo con un minor potenziale economico ma grazie al carattere europeo dell’insegnamento di cui avevano, potuto usufruire

    Conclusioni
    Per tutto l’Ottocento :continuo il dominio delle farmacie delle grandi famiglie, i cui esponenti si distinguevano per una maggior cultura teorico-pratica. Ne sono lo specchio le loro biblioteche, ricche di libri e di riviste a carattere europeo. Le altre farmacie, gestite da diplomati che si ac­contentavano di ottenere in qualche modo ii diritto di esercizio, aprivano e chiudevano con molta facilità. Le mogli e i parenti non laureti del titolare potevano continuare a tenere la farmacia avuta in successione, senza limiti stretti di tempo. Questo fino all’inizio del ’900,dopo il fallimento della legge Crispi. Quando dopo 25 anni di generale caos si rese necessaria una maggior efficienza ed uguaglianza delle prestazioni, anche per l’aumentata valenza terapeutica delle specialità chimiche e delle forme iniettabili, vi fu il ritorno al concetto federiciano della farmacia.
    Le farmacie divennero concessione ad personam con la legge Giolitti del 1913, ma quelle ritenute antiche ebbero il diritto di essere vendute dagli eredi per una o due volte.
    Lo stato fascista confermava col Testo unico del 1934 detta legge, secondo cui, dopo ii 1945,tutte le farmacie, alla morte del titolare dovevano essere messe a concorso. Però il fi­glio laureato avrebbe avuto la precedenza su tutti i concor­renti, anzi si poteva aspettare che completasse gli studi. Dopo la guerra la tradizione culturale di stampo cattolico vide nella famiglia il nucleo di quella società che poteva resistere al comunismo. La famiglia e con lei la farmacia sua espressione ,contro la “cellula rossa” ,che istruiva i figli a denunciare i genitori antirivoluzionari.
    Dal 1960 agli anni ’80 si aprirono le cateratte del Servizio Sanitario Nazionale e fiumi di specialità passarono integralmente per la farmacia, rendendo appetibili anche quelle dei paesi più piccoli.
    Ma un bel giorno… cadde il Muro di Berlino. Il mondo politico dichiarò morto il comunismo (forse in buona fede?) e i due sistemi, che il fascismo aveva denominato aveva denominato demo-pluto-giudaici… si accordarono presto sulla formula del capitalismo globalizzato, che poco a poco assorbirà le pic­cole partite I.V.A.

    Come diceva Isidoro da Siviglia: “finché resterà qualche buon seme e un pugno di terra per seminarli non morirà la spe­ranza di un ritorno alla civiltà che il corso dei secoli ha evidenziato”.

    Antonio Corvi

    La scienza e la spada – I farmacisti e l’unità d’Italia

    Posted By on 31 ottobre 2011

    Ricordiamo l’ imminente l’uscita di un volume di oltre  200 pagg. curato dall’Accademia di Storia della Farmacia dal titolo:

    La scienza e la spada
    I farmacisti e l’Unità d’Italia

    Il volume contiene venti relazioni presentate al congresso di Torino del 9 aprile scorso di cui alleghiamo in calce un “assaggio” di qualche pagina.

    Crediamo di essere l’unica categoria che ha ricordato con testi originali il contributo in scienza ed azione dei nostri predecessori al movimento unitario negli ultimi 150 anni.

    Oltre ad essere un esempio per coloro che oggi esercitano una professione, questo testo dimostra la insostituibile azione della farmacia quale presidio per la salute pubblica.

    Va quindi diffuso ai mezzi di comunicazione oltre che ai rappresentanti della cultura e ai Parlamentari che possono decidere il nostro futuro.

    Per questo chiediamo agli Ordini di prenotare un certo numero, onde tenere il più basso possibile il costo di questa edizione.

    Carlo Bagliani

    LA SCIENZA E LA SPADA

    MODULO D’ORDINE

    Un sogno americano: la Farmacia Kiehl

    Posted By on 28 settembre 2011

    Oggi chi per svago o per lavoro, avesse la ventura di trovarsi a New York all’angolo tra la 3rd Avenue e la 13th Street, non rimarrebbe molto colpito. Il paesaggio è un classico per la New York storica: traffico convulso nelle ore di punta, muri di mattone scrostati, scrittacce di ogni sorta e… un drugstore.

    Il Pear Tree Corner, stereogramma antecedente al 1867

    Niente di particolare non fosse altro che, per l’appunto, la Farmacia Kiehl, è uno degli esempi più eclatanti e moderni di imprenditorialità americana.John Kiehl fonda la sua farmacia nel 1851, era una giornata di maggio, di un maggio dal clima mite e gentile, stando agli annali. Da dietro la porta riesce a scorgere persino una pianta di pero, cosa abbastanza strana per un quartiere di una grande città in pieno sviluppo industriale. Ma quello non era un albero comune e i newyorchesi mostrarono sempre un certo rispetto verso quel vegetale, definito allora “la cosa più vecchia della città di New York”, piantato nel 1647 da Peter Stuyvesant , governatore della colonia olandese di New Amsterdam (è il nome del villaggio fortificato, che diventerà la città di New York. Fu fondato nel 1625 dalla Compagnia Olandese delle Indie Occidentali).
    Jonh Kiehl era un tipo vigoroso ed estroverso e ci volle ben poco perché donasse alla sua impresa familiare un’impronta decisamente particolare. Nella sua bottega Kiehl vendeva di tutto, e cosa non comune a quei tempi, anche l’omeopatia. Nel retrobottega dosava ingredienti locali, vecchi rimedi dei nativi americani e le nuove sostanze chimiche al confezionamento dei più disparati allestimenti. Veniva così curata la calvizie con lozioni, incoraggiata la virilità con creme e perfino la fortuna, con il Money Drawing Oil.

    John Kiehl nella sua farmacia all'inizio del '900

    Nel 1921 la ditta passa a Irving Morse, un emigrato russo di origini ebraiche che aveva studiato farmacia presso la Columbia University e che aveva iniziato come apprendista nella bottega di Kiehl. Le idee di Irving Morse sono alla base del successo di alcuni prodotti, ancor oggi commercializzati, quali la Blue Astringent Herbal Lotion e la Creme de Corps. La farmacia si arricchisce di tè, erbe, miele. Nasce la prima linea a marchio Kiehl.
    Negli anni ’30, si affianca al padre Aaron Morse, farmacista con una predilezione per la botanica, l’omeopatia e la fitochimica, che riesce a dare un’immagine internazionale all’azienda. E’ un periodo di transizione, Aron fonda a Hoboken, nel New Jersey, i laboratori Morse (che poi rivenderà): tra i primi produrre e commercializzare penicillina, trattamenti anti-tubercolosi e a base di fluoro. In farmacia elabora anche un preparato a base di aloe vera per le ustioni da radiazioni e piazza all’ entrata “Mr. Bones”, uno scheletro, in modo da illustrare ai clienti come i rimedi Kiehl’ s avrebbero giovato alla loro salute.

    La farmacia Kiehl nel 1975

    Aaron Morse è un ottimo farmacista, ma le sue qualità non si fermano al lavoro: è anche un valente pilota di aerei acrobatici (era stato aviatore durante la seconda guerra mondiale), ha un debole per le motociclette e le macchine veloci come la sua Lamborghini, va matto per la musica. È patriottico ed idealista, eccentrico e di successo. Incarna in sé il sogno americano. I clienti da lui trovano non solo farmaci e cosmetici ma anche libri, dischi di musica classica e jazz, strumenti musicali e una copia di Gray’s Anatomy. Anche Andy Warhol la cui Silver Factory è a pochi isolati di distanza, diventa un assiduo frequentatore della farmacia. Aaron ama recitare la poesia di Emma Lazarus, incisa ai piedi della Statua della Libertà («Give me your tired, your poor, your huddled masses»). E visto che si è accorto che a volte i clienti nell’attesa, soprattutto i giovani di sesso maschile , si annoiano, adibirà i locali a fianco della sede storica a esposizione: ci metterà anche una Harley Davidson (appartenuta a Clark Gable), una Indian d’epoca e perfino un aereo. Trasforma la sua bottega in un salotto con quadri e fotografie alle pareti. Tutti ne parlano e le persone vanno da lui sapendo di venire trattati in maniera diversa, vengono per condividere e scambiare idee e anche per trovare un amico. Se una misura della vitalità di una azienda la possono dare anche soddisfazione e motivazione dei dipendenti, qui i clienti trovano solo sorrisi e gentilezza.

    Esposizione per i 160 anni presso la sede storica

    E’ una “fidelizzazione” onesta: Morse non vuole solo vendere, ma convincere e condividere un’etica; non si affida a nessuna agenzia pubblicitaria e cura personalmente il marketing . Il confezionamento è pratico e senza orpelli, per incidere il meno possibile sul prezzo finale. Soprattutto vuole che i clienti provino prima di comprare. Il passaparola è tutto. I campioni sono gratuiti e arriverà a produrne quasi nove milioni l’anno. Non c’ è un rimedio generale, ma solo personale: la farmacia per lui è un dispensario di salute e consigli, non un supermercato. I clienti sono amici e i prodotti sono ancora fatti dalla mano del farmacista, come un tempo.
    Intanto, nel 1975, viene aperto il primo punto vendita Kiehl al di fuori di New York nei grandi magazzini Neiman Marcus di Beverly Hills. Seguiranno Barneys , Bergdorf Goodman , Saks Fifth Avenue e Harvey Nichols.
    Nel 1988 la farmacia passa nelle mani della unica figlia Jami. Lei vorrebbe ricorrere alla vendita per corrispondenza ma il padre si oppone. Decide però di inserire una linea per la prima infanzia testata dermatologicamente in clinica pediatrica; a nome Kiehl vengono prodotti pannolini, basi lavanti, creme anti-arrossamento e protettive, shampoo, e l’esclusivo balsamo per le labbra. La scelta si rivela azzeccata. E così nei negozi Kielh’ s comparirà una Polaroid e il Baby Wall con le foto dei piccoli clienti alle pareti. E dato che la figlia di Jami, Nicoletta, va a cavallo, nascerà pure una collezione di prodotti per equini e una linea per sportivi.
    Ma la storia non finisce qui; nel 1997 Kiehl lancia l’ iniziativa Hand Care Kiehl, attraverso la quale il 100% dei suoi profitti viene devoluto all’ amfAR (American Foundation for AIDS Research). Quando negli anni ‘90 l’East Village diventa sempre più di
    moda, la vecchia farmacia Kielh’ s è ormai un mito consolidato per attori, modelli, cantanti e gente della moda.

    Il Kiehl' Store di fianco alla sede storica di New York nel 2005

    La società nel 2000 viene acquisita dalla L’ Oréal (si stima una somma tra i 100 e i 150 milioni di dollari). L’azienda viene essenzialmente ceduta per la difficoltà nel gestire il crescente volume di ordini con l’aumento di popolarità. Si raggiungono negli anni successivi i 30 punti vendita. Michelle Taylor attuale presidente della società dice: “La cosa più importante per me è quello di considerare la Kiehl per quello che è. Il rispetto degli antichi valori è veramente ciò che noi siamo”. E così anche quest’anno Michael Bloomberg, sindaco di New York, ha proclamato un «Kiehl’ s Day», in onore dei suoi beneamati farmacisti. Niente male, per una farmacia con 160 anni di storia sulle spalle.